Periodo complicato per Airbnb: dopo lo slittamento della quotazione e una flessione significativa dei profitti (entrambi causati dal coronavirus) ecco un’ennesima tegola. Questa volta si parla però di brevetti: a puntare il dito verso il gruppo è IBM, accusandolo della violazione di quattro proprietà intellettuali.
IBM vs Airbnb: quattro brevetti sul piatto
Big Blue porterà la piattaforma in tribunale, dopo aver cercato per sei anni a suo dire senza successo di siglare un accordo per porre fine pacificamente alla questione. Si tratta di tecnologie, secondo IBM, essenziali per la creazione del business di Airbnb e legate a funzioni come “visualizzazione di pubblicità all’interno di un servizio interattivo” o “miglioramenti alla navigazione mediante preferiti”. Insomma, innovazioni che oggi sembrano appartenere a un’epoca ormai lontana del mondo online. Questa la dichiarazione dell’azienda affidata alla stampa d’oltreoceano.
Dopo quasi sei anni di discussioni infruttuose con Airbnb al fine di raggiungere un accordo di licenza ragionevole ed equo per lo sfruttamento dei brevetti, non abbiamo alternative alle vie legali per proteggere i diritti sulle nostre proprietà intellettuali. Airbnb ha scelto di ignorare i nostri brevetti e di utilizzare la nostra tecnologia senza alcun compenso.
La replica della controparte non si è fatta attendere. Breve, ma piuttosto chiara.
Pensiamo che questo caso non abbia alcun merito e guardiamo avanti in attesa di un verdetto che lo confermi.
Big Blue e le proprietà intellettuali
Il portfolio di brevetti controllato da IBM è enorme. È sufficiente pensare che per 27 anni consecutivi è risultata la società statunitense con più proprietà intellettuali attribuite. Una di quelle citate nella causa contro Airbnb è la 7.072.849 depositata inizialmente nel 1988 presso USPTO (Prodigy), in cui si parla di un “metodo per mostrare pubblicità in un servizio interattivo fornito da una rete di computer”. In altre parole, una forma di advertising.
Lo stesso documento è già stato utile nel 2018 per ottenere un accordo da 57 milioni di dollari con un’altra piattaforma online, Groupon. Altri 36 milioni di dollari sono stati ottenuti nel 2013 da Twitter con una stretta di mano che ha coperto più proprietà intellettuali. Anche il social network allora stava per quotarsi in borsa. Non una coincidenza, secondo il docente Robin Feldman del UC Hastings College of the Law.
Il momento che precede una IPO è perfetto per mettere pressione a un’azienda e raggiungere velocemente un accordo.
Secondo uno studio condotto nel 2015 da Stanford Technology Law Review, intervistando 52 aziende statunitensi quotate, il 40% ha affermato di aver ricevuto una richiesta di questo tipo appena prima di entrare in borsa.