I senatori statunitensi potranno anche preoccuparsi dei dipendenti stranieri assunti al posto di quelli locali , ma il fenomeno del trasferimento di forza lavoro nei paesi emergenti dove le intelligenze si trovano a costi da ingrosso non accenna a rallentare la propria corsa. Tra i protagonisti c’è IBM, che sarebbe infatti pronta a diminuire ancora la quota di dipendenti USA in favore di un travaso consistente diretto soprattutto verso l’India .
Secondo “persone familiari con la situazione”, rivela il Wall Street Journal , il colosso dell’IT dovrebbe entro breve comunicare una nuova tornata di licenziamenti negli Stati Uniti, tagliando qualcosa come 5.000 posizioni e trasferendone la maggior parte nel paese asiatico. Si tratterebbe, dopo gli annunci di gennaio, della seconda sforbiciata alla forza lavoro operata da IBM che porterebbe il numero di licenziati (sempre in riferimento agli States) a 9.600.
Che si tratti di indiscrezioni veritiere o meno il trend seguito da IBM non lascia adito a dubbi: nel 2006 la quota di impiegati al di fuori degli USA ammontava al 65% del totale, mentre all’inizio del 2009 tale quota è salita al 71% su 400mila lavoratori totali. La multinazionale non ha commentato le speculazioni del WSJ , ma già nei mesi scorsi era stata paventata la possibilità, per i dipendenti che avessero voluto, di trasferirsi nei mercati emergenti e continuare a lavorare lì per l’azienda . Sarebbero “dozzine” i lavoratori che hanno accettato la proposta, originari nella maggior parte dei casi dei paesi a cui IBM si riferisce con la definizione “mercati emergenti”.
I 5.000 licenziamenti, a ogni modo, dovrebbero riguardare la divisione di servizi dedicati al business, le cui competenze vanno dai data center corporate alla gestione delle risorse umane per clienti prestigiosi come Procter & Gamble . Sul perché dei licenziamenti, a parte la crisi economica mondiale, le indiscrezioni parlano di contratti terminati e non più rinnovati da parte dei clienti, o di procedure automatizzate già attive in seno a IBM. Ma le motivazioni non sarebbero solo, o semplicemente, quelle della crisi: a gennaio (giusto in tempo per la notifica dei primi licenziamenti) la corporation ha annunciato utili trimestrali per 4,42 miliardi di dollari.
I dipendenti statunitensi di IBM dicono di essersi spesso ritrovati a dover fare da istruttori per i colleghi indiani, che ora potrebbero prendere il posto di quelli americani . I diretti interessati non hanno digerito la faccenda: l’ex-dipendente IBM Lee Conrad, anima di Communication Workers of America , impegnato nel tentativo di “sindacalizzare” Big Blue, parla di “una pugnalata alla schiena” in riferimento al travaso di lavoro dagli USA all’estero. Il problema, gli risponde a stretto giro di posta il professore della University of Michigan Robert Kennedy, è che sindacati e politici “vorrebbero rallentare il trasferimento di lavoro all’estero, ma si tratta di una cosa quasi impossibile”.
“Internet – continua il professore – non sta rallentando, e il business non tornerà agli archivi di carta” quindi è bene che i lavoratori USA se ne facciano una ragione e accettino il trend generale . I lavoratori indiani di IBM, che nel 2007 erano 74mila unità, serviranno all’azienda per competere sullo stesso piano delle società di outsourcing attive nel paese asiatico, società che cavalcando il costo ridotto del lavoro locale vorrebbero soffiare i clienti al gigante dell’IT mondiale.
Nel caso di Dell, infine, non si parla di pugnalata alla schiena ma pare ci siano pochi dubbi sul fatto che la decisione di chiudere l’impianto della città irlandese di Limerick porterà a conseguenze disastrose per l’economia locale. I tagli effettivi di posti di lavoro sono 2.510, ma se si mette insieme l’indotto tale cifra sale a 6.600 per una perdita di 158 milioni di dollari di valore economico .
Alfonso Maruccia