Il fuoco delle polemiche sul recente studio condotto all’ Institute for Prospective Technological Studies (IPTS) per conto del Joint Research Center (JRC) interno alla Commissione Europea. L’industria discografica britannica ha infatti denunciato una serie di pericolose falle metodologiche nel rapporto sul consumo di musica digitale tra le piattaforme di streaming e le principali reti di file sharing.
A capo della International Federation of Phonographic Industry (IFPI), Frances Moore ha definito fuorvianti ed ingannevoli i risultati dello studio europeo, di fatto contrari ad una delle tesi più care all’industria dell’intrattenimento audiovisivo. Nelle conclusioni del rapporto di IPTS, la fruizione di contenuti pirata non provocherebbe alcun danno alle vendite legali di musica e film .
“Numerose ricerche confermano un quadro molto diverso – ha spiegato Moore – La pirateria ha un impatto negativo sul mercato musicale legale”. Secondo i vertici di IFPI, la metodologia scelta da IPTS non ha portato ad una valutazione accurata degli acquisti di musica digitale, evitando di misurare l’impatto delle piattaforme pirata su quei servizi di streaming a sottoscrizione come ad esempio Spotify .
Gli stessi rappresentanti della piattaforma svedese hanno criticato i risultati dello studio europeo a partire da una definizione confusa e fuorviante del mercato digitale legale . L’errore più vistoso nelle metodologie di ricerca adottate da IPTS risiederebbe appunto nella mancata valutazione del rapporto tra condivisioni illecite e i danni subiti dai servizi di streaming legali.
Nei dati snocciolati da IFPI, il 44,8 per cento degli scariconi britannici non compra alcun contenuto musicale dalle varie alternative legali alle piattaforme della distribuzione pirata . La ricerca di IPTS ha invece trovato un effetto di stimolazione tra il consumo di contenuti digitali non autorizzati e l’acquisto di musica, film e videogiochi su piattaforme come iTunes e Amazon.
Mauro Vecchio