Roma – Il cellulare aziendale è uno strumento di lavoro, e tale deve essere considerato. Chi lo utilizza a scopo personale mette a serio rischio il proprio posto di lavoro. Lo ha stabilito la Cassazione, secondo la quale il dipendente troppo disinvolto rischia il licenziamento. E il rischio vale anche per i dipendenti che fanno utilizzare il cellulare aziendale ad un proprio un familiare.
Il contegno del lavoratore che sfrutta, per interesse proprio e senza autorizzazione, il telefonino messogli a disposizione dall’azienda mette a repentaglio, secondo la Suprema Corte, “il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore”.
È quanto si legge nella sentenza emessa dalla sezione Lavoro della Cassazione, che ha confermato una volta per tutte il licenziamento (datato 2001) di A.G., dipendente Telecom Italia per 30 anni, “per aver utilizzato il cellulare di dotazione aziendale a titolo personale”. Il telefonino, si era scoperto, veniva in realtà utilizzato dal figlio di 20 anni, un giovane che aveva l’abitudine di comunicare con gli amici attraverso “notevoli quantità di SMS”.
Il licenziamento era stato inflitto al tecnico e confermato dalla Corte d’appello di Lecce nel dicembre 2004, in quanto era stata rilevata una “colpevole negligenza”, da parte del dipendente Telecom, nel vigilare sul figlio che utilizzava impunemente il cellulare in dotazione al padre. Il ricorso alla Cassazione è stato avanzato dal dipendente stesso, che aveva ritenuto eccessivo il provvedimento preso nei suoi confronti.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha osservato che l’utilizzo a scopo privato del cellulare aziendale può essere punito con il licenziamento per giusta causa in quanto si tratta di “un grave inadempimento contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile”. Nel caso di specie, infine, il provvedimento dell’azienda è stato giustificato “in relazione ai profili evidenziati in ordine alla condotta del dipendente, protrattasi nel tempo, e agli indebiti vantaggi conseguiti dal dipendente in danno della datrice di lavoro”.
Dario Bonacina