Il 14 gennaio scorso, il Ministro Sandro Bondi ed il Prof. Mauro Masi nell’annunciare l’avvenuto insediamento del Comitato tecnico contro la pirateria digitale e multimediale avevano rassicurato il mondo della cultura digitale , promettendo che il Comitato avrebbe lavorato di concerto con il “popolo della Rete” e che le soluzioni elaborate non sarebbero state, in nessun caso, “persecutorie” o limitative dei diritti degli utenti.
A leggere il testo della bozza di disegno di legge predisposta dalla SIAE e destinata ad essere discussa in seno al Comitato antipirateria, le affermazioni fatte in conferenza stampa il 14 gennaio sembrano poter essere etichettate con due semplici parole: ipocrisia di Stato. Ciò, naturalmente, salvo che nelle prossime ore il Comitato prenda le distanze dal contenuto del documento pubblicato nei giorni scorsi da Altroconsumo. La bozza di disegno di legge, infatti, fa sorgere il dubbio che l’istituzione del Comitato serva solo a “ratificare e legittimare” decisioni di politica legislativa in realtà già assunte nelle stanze dei bottoni. Così, d’altro canto, si giustificherebbe il proposito annunciato dal Prof. Masi di concludere i lavori in soli 60 giorni su una materia tanto complessa che ha impegnato i cugini francesi – alfieri oltranzisti della antipirateria old style – per oltre un anno.
Trovano così una prima conferma le preoccupazioni manifestate da associazioni di categoria ed addetti ai lavori nella lettera aperta – rimasta priva di risposta – indirizzata al Ministro Bondi ed al Prof. Masi all’indomani della notizia dell’istituzione del nuovo comitato tecnico antipirateria: qualcuno nel Palazzo ritiene che il futuro della Cultura digitale sia un affare sul quale possono essere assunte decisioni tanto importanti senza bisogno di sentire quanti ogni giorno contribuiscono alla produzione e distribuzione di contenuti culturali nel nostro Paese o alla loro fruizione.
Sarà difficile, domani, prendere sul serio le audizioni che il coordinatore del Comitato ha annunciato di voler aprire e sarà difficile credere che qualcuno nel Palazzo sia realmente intenzionato ad ascoltare gli addetti ai lavori, i consumatori e le associazioni di categoria. Sarebbe, d’altro canto sbagliato, in questo momento, cedere alla tentazione di non riconoscere neppure il beneficio del dubbio al Comitato circa le intenzioni che lo animano e, quindi, mi sembra opportuno analizzare più da vicino la bozza e sottolineare sin d’ora quali sono gli aspetti della stessa che non possono essere, in nessun caso, condivisi. Se il testo del disegno di legge riflette solo la volontà del vecchio intermediario dei diritti e non anche quella del Comitato, non sarà difficile al Prof. Masi prenderne le distanze, dando, così, prova di autonomia, indipendenza e reale convincimento che la cultura – soprattutto nell’era digitale – costituisce il più prezioso dei beni comuni.
Proviamo, quindi, ad analizzare più da vicino il disegno di legge.
(A) L’art. 1 della bozza, apparentemente, ribadisce un principio ovvio, quello secondo cui “L’immissione e la fruizione delle opere dell’ingegno o di loro parti nelle reti telematiche è disciplinata dalle disposizioni della legge 22 aprile 1941, n. 633 e successive modificazioni ed integrazioni, e dalle disposizioni della presente legge”.
A pensar male, tuttavia, in certi casi, non si fa peccato e, dunque, il riferimento alla immissione e fruizione anche di semplici “parti di opere” fa sorgere il sospetto che, per questa via, si intenda escludere alla radice la possibilità di porre, finalmente, mano al tema delle libere utilizzazioni legittimando, ad esempio, la circolazione di porzioni di opere prive di autonomia creativa e la cui fruizione è palesemente inidonea a porsi in competizione con la fruizione dell’opera originaria.
È una questione particolarmente delicata in relazione alle opere digitali di arte derivata: remix e mash-up.
Se così fosse sarebbe una vergogna nella vergogna, perché con l’alibi dell’enforcement si introdurrebbero nell’Ordinamento ulteriori limiti e legacci alla creatività digitale di cui davvero non si avverte il bisogno e sui quali, d’altro canto, non può dirsi raggiunta alcuna conclusione univoca e consolidata.
(B) L’art. 2 della bozza di disegno di legge ha tutto il sapore di una “disposizione-contentino” priva di concreta attuabilità e, in ogni caso, scritta da chi, evidentemente, ignora le dinamiche di circolazione dei prodotti culturali nel contesto digitale e telematico. Che significa che “lo Stato incentiva la realizzazione di piattaforme telematiche per l’immissione e la fruizione legittime e gratuite di opere dell’ingegno” ?
Si stanno promettendo finanziamenti a chiunque si impegni a realizzare nuovi user genereted content, ponendo a disposizione del pubblico gratuitamente contenuti protetti da diritto d’autore? Difficile credere che sia così e, in ogni caso, il problema non è creare nuove piattaforme ma disciplinare in modo serio ed equo la circolazione dei contenuti digitali e l’accesso ai prodotti culturali in Rete senza pretendere di modificarne morfologia e struttura.
I titolari dei diritti devono essere obbligati a rendere disponibili attraverso le piattaforme digitali e telematiche i propri prodotti culturali a condizioni economiche e temporali concorrenziali rispetto all’immissione dei medesimi prodotti nei circuiti tradizionali con modalità tali da facilitarne, quanto più possibile, l’accesso ai consumatori.
(C) L’art. 3 della bozza di disegno di legge contiene una delega legislativa sostanzialmente “in bianco” al Governo per il varo entro 18 mesi di una nuova legge antipirateria.
Si tratta di una scelta inopportuna e prima ancora incostituzionale.
La materia – si sta discutendo del futuro della cultura nel nostro Paese – è tale da richiedere una discussione quanto più ampia possibile in Parlamento e l’enucleazione di limiti e confini precisi e circoscritti della delega da attribuirsi al Governo. Solo così ci si potrà porre al riparo dal rischio che nelle stanze dei bottoni prevalgano gli interessi dei soliti noti su quello generale all’ottimizzazione della circolazione dei contenuti digitali.
(D) I singoli criteri cui, secondo l’estensore del disegno di legge, dovrebbe attenersi il Governo sono, nella più parte dei casi, semplici petizioni di principio e, in altre occasioni, autentici attentati alla libertà di manifestazione del pensiero e di condivisione di cultura nello spazio telematico.
Andiamo con ordine.
I criteri di cui alle lettere a), b), c), e) e f) non fissano alcun principio idoneo ad orientare il Governo nell’esercizio della delega legislativa più di quanto non faccia la nostra Carta costituzionale, nel senso che ogni intervento normativo contrario a detti principi sarebbe semplicemente costituzionalmente illegittimo.
Attraverso il criterio di cui alla lettera d) si mira, invece, ad introdurre nel nostro Ordinamento un principio che – oltre a porsi in aperto contrasto con il vigente quadro normativo europeo – produrrebbe effetti dirompenti. Si prevede, infatti, che il Governo nell’esercizio delle delega dovrà attribuire “specifici profili di diretta responsabilità civile, amministrativa e penale all’operato dei prestatori di servizi della società dell’informazione” .
L’espressione “prestatore dei servizi della società dell’informazione” è ambigua in quanto essa si riferisce ad una categoria generale enucleata dal legislatore europeo nella quale rientrano anche gli intermediari della comunicazione che, tuttavia, sono sottratti per legge da qualsivoglia obbligo di sorveglianza sui contenuti immessi in Rete dai propri utenti e, conseguentemente, da qualsivoglia responsabilità. Se si vuole effettivamente promuovere la circolazione di contenuti digitali nel cyberspazio occorre salvaguardare tale fondamentale principio di civiltà giuridica e, anzi, ridefinire i confini della categoria degli “intermediari della comunicazione” in ragione del tempo ormai trascorso da quando il legislatore europeo (2000) e quello nazionale (2003) hanno affrontato la questione.
Come insegna la storia moderna, imporre qualsivoglia genere di responsabilità in capo agli intermediari della comunicazione significa indurre tali soggetti a porre in essere – a propria tutela – forme di censura privata e limitazione nella diffusione al pubblico di cultura digitale.
Chi rompe, paga, recita il vecchio proverbio.
Sono, pertanto, gli utenti che dovessero violare gli altrui diritti d’autore a doverne pagare le conseguenze alla stregua, peraltro, di un quadro sanzionatorio già esistente e non certamente tenero.
Il criterio di cui alla lettera g) sembra destinato ad imporre al Governo di estendere – anziché ridimensionare o, addirittura eliminare come da più parti richiesto – il monopolio della vecchia SIAE sul mercato dell’intermediazione dei diritti d’autore anche nel contesto digitale.
Si tratta di un’aspirazione anacronistica che appesantirebbe e limiterebbe – sia sotto un profilo economico che burocratico – la circolazione dei contenuti digitali nello spazio telematico.
Per quanto concerne la previsione di cui alla lettera h) sembrano valere considerazioni analoghe a quelle già fatte in relazione alla previsione di cui alla lettera d): tutti i prestatori dei servizi della società dell’informazione – intermediari della comunicazione inclusi – vengono trasformati in “sceriffi della Rete” con la missione di controllare e rendicontare in ordine alla circolazione dei contenuti digitali protetti da diritto d’autore.
Non è, e non può essere questo, il ruolo di chi ha scelto di limitarsi ad intermediare altrui prodotti culturali.
Il criterio di cui alla lettera i) costituisce un’autentica dichiarazione di guerra alla libertà di manifestazione del pensiero in Rete e mira a reintrodurre, nello spazio telematico e nel secolo della Rete, un istituto proprio dei più antichi regimi autoritari quale quello della censura: un controllo da parte di un’Autorità governativa (e quindi politica) circa la conformità ai principi dell’ordine pubblico e del buon costume dei contenuti immessi nelle piattaforme telematiche.
Si tratta di ruoli e funzioni sin qui egregiamente svolti dall’Autorità giudiziaria in ossequio al principio di indipendenza dei poteri dello Stato.
Guai se domani un’Autorità di governo dovesse ritenere contraria all’ordine pubblico la diffusione su YouTube del video di una manifestazione contraria a proprie iniziative o progetti; sarebbe la fine della Rete come spazio di condivisione libera di pensieri, informazioni ed idee.
Non si vede, peraltro, cosa tale previsione abbia a che vedere con il diritto d’autore e l’antipirateria.
Il criterio di cui alla lettera l) sembra, infine, essere quello attraverso il quale si intende “staccare” una “delega in bianco” al Governo per il recepimento nel nostro Ordinamento di soluzioni alla francese: nuove sanzioni civili, amministrative e, nei casi più gravi, anche penali per eventuali violazioni dei diritti d’autore in ambito telematico.
Si è già scritto molto sull’inammissibilità, nel nostro ordinamento, di soluzioni che prevedano sanzioni sproporzionate rispetto alla violazione posta in essere quale, certamente, sarebbe l’idea di disconnettere dal mondo chiunque violi gli altrui diritti patrimoniali. Nella società dell’informazione un cittadino disconnesso è un cittadino privato dell’esercizio dei più elementari diritti civili e politici.
Ci sarebbe ancora molto da scrivere sulla sciagurata iniziativa legislativa che la SIAE sembra intenzionata a proporre al Comitato di far sua ma, prima di farlo, è il caso di aspettare che il Prof. Masi o il Ministro Bondi prendano pubblicamente le distanze in modo chiaro ed inequivoco dall’idea di suggerire al Governo soluzioni quali quelle contenute nella bozza di disegno di legge.
È una grande opportunità per il Governo di dimostrare di aver ben compreso il valore della Cultura nella società dell’informazione. Saprà coglierla? Certamente la Rete, se così non sarà, saprà reagire e difendere se stessa dal vecchio che, in una corsa contro la storia, vorrebbe “colonizzare” il nuovo.
Guido Scorza
www.guidoscorza.it
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione