Un’operazione planetaria, manco fosse una spy story. Intel si muove in comparti che un tempo nessuno avrebbe immaginato: così la sanità e l’istruzione diventano terreni di frontiera da esplorare e da affrontare con soluzioni tecnologiche ad hoc, per individuare i prossimi obiettivi dello sviluppo tecnologico. Il risultato fa un po’ comodo a tutti: a Intel consente di allargare il proprio business, ai paesi che usufruiscono del contributo del chipmaker di Santa Clara garantisce un boost in fatto di innovazione tecnologica nella PA e nella società.
È, nemmeno a farlo apposta, è il caso dell’Italia: dove poche settimane fa il Ministero dell’Istruzione e quello per l’Innovazione hanno annunciato un programma congiunto, che vede la collaborazione di grandi nomi del panorama ICT nel tentativo di svecchiare il sistema scolastico. Lo spiega a Punto Informatico John Davies , vicepresidente Intel e responsabile tra l’altro del programma World Ahead per BigI: “Sono dieci anni che lavoriamo ad un programma di training per gli insegnanti, e ora sperimenteremo per la prima volta la versione online proprio in Italia”. Gli chiediamo se sia davvero necessario in un paese industrializzato come il nostro un sostegno di questo tipo: “Certamente – replica – bisogna aiutare gli insegnati ad apprendere l’uso del computer: non soltanto devono essere in grado di usarlo, ma anche di usarlo per insegnare”.
“C’è sempre bisogno di aumentare l’impiego della tecnologia” aggiunge Carlo Parmeggiani , responsabile per Intel del settore healthcare in Italia e Svizzera: e questo significa, prosegue, non soltanto offrire computer a basso costo (vengono ovviamente menzionati Classmate , così come il programma c@ppuccino di un paio di legislature fa), ma anche garantire la possibilità di inserirli in un contesto sociale e di risorse adeguato. Interviene di nuovo Davies: “Prendiamo il caso degli Stati Uniti: lì alcune stime indicano che l’80 per cento degli impieghi prevede o richiede l’utilizzo del computer. Ma non è altrettanto vero che l’80 per cento della forza lavoro sia in grado di utilizzare con profitto un PC”.
Intel, secondo i suoi rappresentati, svolge il ruolo di “abilitatore” ( enabler è il termine che ricorre nella conversazione): si spende laddove si vede la possibilità di contribuire allo sviluppo e alla crescita dell’industria e della società . E così, come nel caso del WiMAX, prova a giocare la carta del silicio per offrire un vantaggio tecnologico a se stessa e agli utenti finali. “Anche la banda larga può essere un fattore per sviluppare l’istruzione” chiosa Davies, che pone tre condizioni affinché questo accada. “La banda larga – prosegue – deve esserci, deve essere disponibile per tutti, deve avere un costo accettabile”: e in paesi emergenti come l’India (penetrazione nell’ordine dell’1 per cento), o in alcuni stati sudamericani (attorno al 10 per cento), bisogna confrontarsi con la realtà.
Lì, prosegue Davies, “non è questione di cavi di rame o di fibra”: di modem ADSL e di linee fisse ce ne sono poche, ma i cellulari dominano il panorama della comunicazione personale . Tanto vale investire in quella direzione, facendo bene attenzione a un particolare: “In Europa il 3G (inteso come l’UMTS nelle sue varie incarnazioni, ndr) è lo standard: ma è una tecnologia nata per la voce, che solo in seguito ha iniziato ad essere utilizzata anche per la trasmissione dati”. Al contrario di WiMAX (e di LTE, naturalmente): “Ci sono paesi che hanno investito nel 3G che andranno verso LTE: ma ci sono paesi dove WiMAX sta diventando importante: in Pakistan, in Cile che è un paese con una geografia particolare, in Russia dove ci sono già 100mila abbonati, in Malaysia. E poi a Panama, anche con l’aiuto del governo, si punta a offrire banda larga WiMAX gratuita a ogni cittadino”.
Insomma, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la partita tra derivati del GSM e WiMAX è tutt’altro che finita : “Questione di numeri: numeri dei cittadini dei paesi che investono, valore degli investimenti”. In Colombia il governo locale punta a impegnare 300 milioni di dollari per la gestione dello spettro WiMAX nelle zone rurali, Intel da parte sua punta a trasformarlo in una commodity sulla scia di quanto accaduto con il WiFi, inserendolo nei dispositivi: “Ci piace il WiMAX – spiega Davies a Punto Informatico – perché è stata la prima tecnologia 4G pensata per la trasmissione dati: e perché incoraggia la competizione, stimola l’industria a muoversi più velocemente, contribuisce ad aumentare il numero di persone connesse garantendo la scalabilità che il 3G al momento non è in grado di offrire”.
È tutta una questione di strumenti, del pezzo giusto al posto giusto: quello che in Italia può essere un’offerta di nicchia, altrove può diventare un best seller (e viceversa). Non mancano nel Belpaese esempi di cosa è possibile fare con il broadband wireless alternativo , ma come detto non si deve dimenticare che ci si sta confrontando con realtà diverse in posti diversi. La domanda successiva riguarda dunque gli strumenti: visto che, come detto in precedenza, ci sono paesi dove le linee fisse scarseggiano ma non mancano i cellulari, non è possibile che il vero strumento di digitalizzazione di massa sia lo smartphone più che il personal computer? “Ogni device ha il suo posto e il suo ruolo” ribatte Davies.
“Un PC ha uno schermo grande, ha lo storage, è interattivo: è uno strumento flessibile, che si adatta a svolgere molti compiti” prosegue. “Certo gli smartphone acquisiscono sempre nuove funzioni: sono ideali per fare shopping, per fare home banking. Ma tornando all’istruzione, bisogna anche rispettare il modo in cui si impara e si insegna: è anche una questione di socializzazione, e un cellulare non agevola la condivisione tra gli studenti”. La risposta è, in definitiva, che il PC non sparirà : “Kindle è uno strumento fantastico, ma non è minimamente flessibile come un PC: con un computer si può imparare, creare, immagazzinare, interagire, fare. I PC, gli ebook reader, gli smartphone sono destinati a convivere”. Ovviamente, dopo aver reso i dispositivi sempre più alla portata di tutte le tasche, dopo aver contribuito a rendere i cittadini capaci di utilizzarli, occorre fornire i contenuti : come i libri, visto che si parla di scuola. “Google sta digitalizzando migliaia di pagine al giorno – ricorda Davies – la biblioteca del Congresso può andare su una penna USB: ma occorre cambiare il business model del mercato editoriale, e ci sono aziende che si stanno già muovendo in questa direzione”. Citiamo il mercato musicale come esempio della difficoltà di adattarsi a questo tipo di cambiamento: “Pensiamo alla fotografia: tutto è diventato digitale in pochi anni, che le aziende lo volessero o no. Dovranno accettare questa transizione, questa trasformazione: alcune staranno al passo, altre andranno un po’ più piano, altre non ce la faranno. Ma è la competizione del mercato che lo impone”.
A questo punto Parmeggiani ci ricorda che proprio in Italia il Governo ha indicato nel 2012 la scadenza per avere libri di testo in formato digitale : “La tecnologia aiuterà a ridurre i costi, a salvare carta, a rendere tutto possibile: magari ci metteremo qualche anno in più, ma succederà, è inevitabile”. Interviene Davies: “L’obiettivo è avere i contenuti disponibili in varie forme per i diversi dispositivi: sfruttare tutti i canali, muoversi con l’innovazione, realizzare prodotti specifici per le diverse esigenze”. E, come chiarisce di nuovo Parmeggiani, ci sono già molti individui e aziende che lavorano a questo paradigma.
Ovviamente, sbaglieremmo a pensare che tutto questo sia frutto di una semplice visione filantropica: c’è un disegno preciso in atto, ma non si tratta necessariamente di un disegno ingenuo o di un piano ambiguo. È un modo per unire gli interessi della società a quelli di un’azienda con i suoi azionisti e i suoi obiettivi industriali : “E funziona molto bene” aggiunge Davies. “Mettiamola così – ci spiega – Diciamo che sul nostro Pianeta ci sono un miliardo di persone che hanno accesso a Internet: poi c’è un altro miliardo che potrebbe farlo, ma non ha ancora abbracciato la nuova tecnologia perché non vede ancora che vantaggio ne trarrebbe. E infine ce n’è un altro miliardo che della tecnologia ne avrebbe bisogno, i device sono sempre più alla portata di tutti, ma che ha anche bisogno di imparare ad usarla”.
“È una struttura con quattro pilastri: i primi due sono PC e banda larga, e qui Intel entra come vendor producendo tecnologia e vendendola – prosegue Davies – e in questo modo ottiene quello che serve per contribuire allo sviluppo degli altri due. Che sono il training all’utilizzo della tecnologia stessa, e lo stiamo facendo con 6 milioni di docenti coinvolti nei nostri programmi, e mettendo a disposizione contenuti software e non solo: queste due attività da sole valgono milioni di dollari, milioni che Intel può donare perché ha guadagnato in precedenza”.
La chiacchierata volge al termine, e sorge un dubbio finale: com’è possibile che, attorno a un tavolo con il più grande produttore di CPU del pianeta, l’argomento silicio non sia mai stato sfiorato ? “Non è che non stiamo più producendo chip – sorride Davies – ma non siamo solo quello: stiamo creando nuovi mercati nell’istruzione e nell’healthcare, stiamo svolgendo il ruolo di market creator , un ruolo che abbiamo già svolto in passato”. Nel 1989 Intel creò il primo reference design per un laptop: “Noi non vendiamo computer, noi contribuiamo a costruirli: a volte le piccole aziende non possono investire quanto possiamo noi, e allora quando serve diamo una mano ad abbassare i costi”. “Siamo enabler ” ripete ancora: vista l’importanza sul mercato odierno dei laptop, il messaggio è chiaro.
A cura di Luca Annunziata