I reati connessi al terrorismo sono troppo gravi per poter ricorrere alla protezione del diritto all’oblio: a riferirlo è il Garante per la protezione dei dati personali in un caso i cui fatti risalgono agli Anni di Piombo.
Il Garante si è trovato ad affrontare la questione a seguito del ricorso presentato lo scorso 22 dicembre da una persona il cui nome è associato a vicende passate di cronaca legate al terrorismo: l’associazione avviene con la funzione di completamento automatico offerta da Google nel corso della digitazione nel suo box di ricerca, con dodici URL risultato della query corrispondente e con i relativi snippet , gli “stralci dei contenuti ad essi associati”.
I risultati della ricerca che Google offre sotto forma di link riportano notizie delle maggiori testate o agenzie di stampa nazionali, la voce di Wikipedia che riguarda il ricorrente, un libro sugli Anni di Piombo e tesi, atti e resoconti su quegli anni, sui fatti che hanno visto coinvolto l’uomo e sulle azioni sul gruppo neofascista di cui faceva parte.
Il ricorrente, il cui nome non viene riportato negli atti del Garante della privacy, non contestava l’accostamento con i fatti di cronaca oggetto di tali URL: ha anzi confermato che tra la fine tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, ha partecipato attivamente a due organizzazioni (il cui nome è oscurato nella decisione), “commettendo diversi reati aggravati dalla matrice terroristica” per cui ha scontato la sua pena.
Proprio perché i fatti risalgono a più di 30 anni fa e sostenendo di “non essere un personaggio pubblico, ma attualmente un libero cittadino che vive dei proventi del proprio lavoro” del suo “nuovo percorso di vita intrapreso”, chiedeva dunque la deindicizzazione di tali link in quanto “l’assenza di notorietà farebbe venir meno l’interesse pubblico attuale alla conoscenza delle informazioni indicizzate” che potrebbero inoltre essere “estremamente fuorvianti ed altamente pregiudizievoli”.
La questione, insomma, è giocata sui confini del diritto all’oblio , quella delicata applicazione del diritto alla privacy che riconosce la possibilità di veder rimossi dai risultati dei motori di ricerca alcuni link che secondo il diretto interessato dovrebbero rimanere sepolti nel passato, in quanto non più rilevanti per l’attualità: tale principio, pur ponendosi in pericoloso contrasto con il diritto alla cronaca, è stato sancito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la sentenza del mese di maggio del 2014 ed ha finito per obbligare i motori di ricerca a valutare caso per caso se rimuovere determinati risultati segnalati dai protagonisti delle pagine linkate.
Da allora, peraltro, diverse istituzioni pubbliche hanno cercato di indirizzare i serach engine nell’individuazione del confine tra pubblico interesse e diritto alla privacy, una distinzione che – nonostante il lavoro di Article 29 (WP29), il gruppo di lavoro delle autorità europee impegnate nella protezione dei dati personali, che ha portato alla redazione di Linee guida sulla questione – è rimasta tutta a carico dei revisori delle richieste di rimozione dei motori di ricerca.
Anche il Garante italiano, cui si possono rivolgere i cittadini contro il diniego dei motori di ricerca in merito alle loro richieste di scomparire dalle pagine dei risultati, si è trovato già in passato a giudicare l’operato di Google in materia, ritenendo nella maggior parte dei casi – come in quest’ultimo – che la Grande G avesse giudicato correttamente.
In merito a quest’ultimo caso il Garante afferma innanzitutto, che “sarebbe inammissibile la richiesta di rimozione dei suggerimenti di ricerca visualizzati nella tendina a comparsa del “Completamento automatico”, posto che i suggerimenti visualizzati sono il risultato di un software che rispecchia in modo algoritmico il numero dei termini maggiormente ricercati, in un arco di tempo determinato, insieme alle prime parole chiave digitate nella stringa di ricerca e “non riflette in alcun modo una scelta discrezionale di Google”. Una conclusione tecnicamente ineccepibile, ma che in altre situazioni non ha impedito a Mountain View di intervenire sui suoi suggerimenti e di trovarsi negli Stati Uniti al centro di polemiche .
Il Garante per la Privacy, poi, ha stabilito che debba ritenersi “prevalente l’interesse del pubblico ad accedere alle notizie in questione e che pertanto debba dichiararsi infondata la richiesta di rimozione degli URL indicati dal ricorrente e tuttora indicizzati da Google” in quanto i reati oggetto del contendere rientrano tra quelli “particolarmente gravi indicati dalle linee guida WP29, tanto che – indipendentemente dall’avvenuta estinzione della pena inflitta – resta per l’interessato l’interdizione perpetua dai pubblici uffici”.
Claudio Tamburrino