Pur essendo lontani di almeno un decennio dalla comparsa di macchine in grado di leggere il pensiero, suscita interesse lo studio condotto da un’equipe di ricercatori britannici, volto a comprendere come il cervello umano sia in grado di archiviare e richiamare i ricordi. Tramite alcuni test in cui veniva chiesto ad alcuni volontari di spostarsi in differenti ambienti virtuali, gli studiosi sono riusciti a decodificare le informazioni provenienti dal cervello, individuando la posizione del soggetto esaminato. Le speranze per il futuro convergono su nuovi dispositivi e nuovi approcci medico-scientifici in grado di combattere malattie neurologiche come l’Alzheimer.
Per i loro esperimenti, i ricercatori del Wellcome Trust Centre for Neuroimaging presso lo University College di Londra, hanno chiesto ad un gruppo di volontari – cui è stato fornito un apposito elmetto – di muoversi in quattro differenti location situate all’interno di un edificio virtuale inglobato in un’esperienza molto simile a quella dei giochi di ruolo. In seguito, grazie ai dati ottenuti utilizzando la tecnica conosciuta come functional magnetic resonance imaging ( fMRI ) e ad un software sviluppato per analizzare i pattern creati nell’attività cerebrale dall’interazione con il mondo virtuale, gli scienziati hanno compreso come alcuni particolari gruppi di cellule contenessero una sorta di codice che, una volta decodificato, ha permesso di stabilire l’esatta posizione occupata dai soggetti esaminati all’interno dello spazio virtuale.
“Sorprendentemente, grazie a questa tecnologia siamo stati in grado di predire in maniera accurata la posizione di un individuo nell’ambiente virtuale utilizzando esclusivamente i dati ricavati dal cervello – spiega Eleanor Maguire, co-autrice dello studio – Inoltre abbiamo potuto anche stabilire quali ricordi il soggetto stava richiamando nella sua mente, in questo caso quelli relativi alla posizione nello spazio”. Comunque, va specificato che i dati sono stati ottenuti dopo un lungo periodo di elaborazione, per il quale sono stati necessari numerose scansioni su ogni singolo individuo.
Lo studio è stato focalizzato sulla regione dell’ ippocampo , la zona interessata nella creazione e archiviazione dei ricordi e dalla cosiddetta “navigazione” nello spazio circostante. In tal senso, i ricercatori dicono di veder ridimensionate le precedenti ipotesi che volevano i ricordi immagazzinati all’interno del cervello umano senza apparenti criteri utili a fornire una decodificazione. Questa ipotesi era stata alimentata in precedenza anche da precedenti test effettuati studiando la stessa regione del cervello dei ratti, anche se va precisato che all’epoca furono analizzati solo alcune decine di neuroni, mentre lo studio attuale si è basato sull’osservazione di decine di migliaia di cellule : “osservando l’attività di oltre decine di migliaia di neuroni siamo stati in grado di capire che deve esserci una struttura funzionale, uno schema, di come i ricordi vengono codificati” continua Maguire.
Lo studio britannico sembrerebbe una diramazione spontanea di quello effettuato dal team di ricercatori della Advanced Telecommunications Research Institute International di Kyoto, in grado di ricostruire tramite una tecnologia molto simile a quella descritta in questo articolo le immagini catturate dal cervello.
Sebbene l’intento degli scienziati sia quello di creare una nuova forma di approccio terapeutico per malattie come l’Alzheimer ed i vari traumi psichici che portano al danneggiamento o alla perdita della memoria, in prospettiva futura la possibilità di estrapolare informazioni relative allo spazio fisico risulterebbe sicuramente utile alle forze dell’ordine in ambito delle indagini. Nonostante per padroneggiare a pieno le possibilità offerte dalla scienza ci vorrà, stando a quanto dichiarato da Maguire e colleghi, non meno di un decennio, sarebbe auspicabile iniziare a discutere sin da ora le conseguenze a livello etico implicate nella vicenda.
Vincenzo Gentile