Update in calce – Roma – Chi era sintonizzato sulle frequenze informatiche intorno al 1999 ricorda bene la rivoluzione resa possibile dall’accoppiata MP3 + P2P. Era tempo di connessioni 56k flat e Napster era, nel bene e nel male, il software del momento. La furia degli avvocati delle major sembrava non poter contenere il dilagante traffico di musica protetta, diffusa attraverso un numero sempre più vasto di software client che sfruttavano la sempre più ampia banda resa disponibile dalla tecnologia ADSL. Fu nel 2001, mentre Napster godeva della sua maggior popolarità, che Apple pensò bene di fare il suo ingresso nel giuridicamente traballante carrozzone dell’MP3, sfornando iTunes per Mac OS 9 e un apparecchio destinato a lasciare una traccia indelebile nella storia dell’informatica: l’iPod.
È fin troppo facile, col senno di poi, ritenere quella scelta un colpo di genio, non tanto per l’originalità, quanto per la convinzione con cui fu portata avanti da Steve Jobs, anche in anni di vendite stagnanti. Va ricordato infatti che nel 2001 iPod entrava in un mercato affollato di competitor, generalmente più economici e accessibili anche al di fuori del mondo Mac, nel quale iPod sarebbe rimasto confinato fino all’ottobre 2003, data di rilascio della versione Windows di iTunes. Non sorprende dunque che fino a fine 2003 le vendite di iPod siano state tutto tranne che entusiasmanti, anche durante i primi mesi di vita dell’iTunes music store, lanciato contestualmente con la release 4.0 nell’aprile dello stesso anno.
È nel 2004 che avviene il boom di iPod , a cui contribuisce il lancio della versione Mini, la citata possibilità di interagire nativamente con Windows e il successo della piattaforma iTunes. Mentre sul fronte del download illegale il fuoco dei detentori di diritti d’autore si intensifica, l’iTunes Music Store infila una serie di risultati record, diffusi con la sobrietà tipica del reparto PR di Cupertino.
A parte gli strombazzamenti autocelebrativi di Apple però, la diffusione del P2P cresce ininterrottamente e le vendite complessive di musica iniziano a mostrare segni di declino. Nel frattempo alcune ricerche ( qui e qui ) cominciano a scrostare l’intonaco bianco lucido che avvolge uno dei “dirty secrets” dell’industria tecnologica: iPod (come ogni suo omologo) è un fenomeno prevalentemente legato alla musica non protetta, compresa – per usare un eufemismo – quella che si scarica illegalmente via P2P. Del resto è un segreto di Pulcinella: chiunque abbia tentato di creare player non compatibili col formato MP3 ha fallito, e la stessa capacità raggiunta dagli
ultimi iPod – 15mila canzoni x 99 cent fa il prezzo di un’utilitaria full optional – deve aver provocato infiniti aggrottamenti di sopracciglia, per non dire giramenti nel basso ventre, da parte di chi quella stessa musica, fino a pochi anni prima, la distribuiva in via esclusiva.
Ciò premesso, è piuttosto facile capire quale sia l’opinione che i discografici hanno di Apple (parassiti), e quante benedizioni abbiano mandato a Jobs quando, con tono da grande filantropo vicino ai bisogni del consumatore, ha dichiarato che fosse per lui del DRM sulla musica si potrebbe fare a meno. Queste tensioni sono dopotutto normali dal 1999 in poi, da quando cioè tecnologia e diritto d’autore viaggiano in rotta di collisione e cercano di dominarsi a vicenda, ciascuno forte del proprio peso sul mercato, ciascuno tentando di rubare fette di fatturato all’altro, il primo avendo solitamente ragione del secondo.
Arriviamo ad AppleTV , il prodotto con cui il geniale Steve, fresco di nomina nel board della Disney, fa capire al pubblico che con la musica si può anche scherzare ma col video non si cazzeggia: il set top box di Apple infatti, riproduce esclusivamente i video acquistati su iTunes (in formato m4v, il wrapper Quicktime di H264). Niente Divx, niente Xvid. Un po’ come se l’iPod fosse uscito nel 2001 supportando solo musica codificata in un formato proprietario.
È fin troppo facile ipotizzare l’accoglienza che gli riserverà il mercato, “viziato” – nel bene e nel male – dalla sbornia di libertà degli scorsi anni e soprattutto dalla prontezza con cui le aziende tecnologiche di tutto il mondo, prima fra tutte Apple, hanno saputo sfruttare la situazione, saturando il mercato con prodotti “neutrali” rispetto alla provenienza dei contenuti.
Insomma, la dissonanza dell’approccio Apple nei confronti del DRM è assodata e a pensarci bene non sorprende: per giocare sul tavolo dei detentori di diritti e su quello degli innovatori tecnologici la coerenza sarebbe una strategia perdente. Resta una domanda di non poco conto: cosa accadrà quando e se l’inesorabile ridimensionamento degli attuali detentori di diritti d’autore lascerà aziende come Apple a dettar legge?
Alessio Di Domizio
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Rettifica
Cari lettori di PI, scrivo da inginocchiato sui ceci per rettificare un’informazione inesatta riportata nel mio precedente articolo intitolato “iPod, AppleTv e il gioco delle tre carte”. Nel mio articolo sostenevo che “il set top box di Apple infatti, riproduce esclusivamente i video acquistati su iTunes”, la qual cosa è inesatta a causa della compatibilità nativa del nuovo gadget di casa Apple col formato MPEG4 e H.264.
Animato dallo stesso spirito di esattezza però, vorrei riportare che il supporto al formato H.264 non è totale ma limitato dalla potenza hardware di AppleTV a un bitrate massimo di 5mbps (equivalente a 1280 x 720 a 24 fps o 960 x 540 a 30 fps, si veda qui e qui ).
Questa limitazione impone operazioni di ricodifica tanto per filmati in formati non supportati, quanto per flussi H.264 che abbiano un bitrate superiore. L’operazione, su macchine anche molto recenti, richiede parecchio tempo: secondo il 2° articolo citato la conversione in formato m4v per AppleTV di un Xvid da 702 mega (ris. 640 x 352) su un mac pro quad core da 3ghz richiede circa 55 minuti!
Detto questo, che nulla toglie alla mia imprecisione, mi auguro che sia passato dell’articolo quello che voleva esserne l’argomento centrale: la apparente cessazione della “neutralità rispetto ai contenuti” iniziata con iPod, a favore del supporto ad un formato che, pur tecnicamente aperto, non ha lontanamente la diffusione di DIVX e XVID.
Dietro questa mossa intravedo una posizione “politica” che non mi convince. In secundis non ritengo che dalla fattibilità di qualche hack casalingo possa derivare la popolarità di un prodotto di per sé chiuso. A differenza delle precedenti rettifiche però, queste sono solo opinioni.
Pace e bene
Alessio Di Domizio