Correva l’anno 1991: il sottoscritto aveva già fumato la sua prima sigaretta, al posto di Internet c’erano le BBS e PI non esisteva. Circolavano ancora gli Amiga e i nuovi OS per PC promettevano agli utenti qualcosa in più che una buona ragione per comprare un computer nuovo. In quel tempo un’ottima percentuale di chi comprava “piccì” non si sentiva in dovere di conoscere la marca del suo processore. Di lì a poco nacque “Intel Inside” e cambiarono le regole del gioco.
Dopo sedici anni e molte decine di milioni di dollari investiti in azioni di marketing, quell’iniziativa ha avuto il merito non solo di rafforzare il brand Intel nel pubblico utente (in un momento cruciale come quello del boom degli “assemblati”), ma di rendere la marca del processore un dato pertinente nella scelta del computer.
Non fu tuttavia una volontà di espansione “quantitativa” a spingere Intel verso quella mossa: “Chipzilla” era già nel 1991 saldamente leader del mercato dei processori x86. Fu invece l’intuizione che il giovane e sempre più aperto mercato del PC dava ai produttori di hardware lo spazio che toglieva agli storici OEM i quali, al tramonto dell’epoca delle piattaforme chiuse, diventavano sempre più intercambiabili, fra di loro e con chi assemblava PC in garage. La prima a farne le spese fu proprio la madre di questa rivoluzione, IBM.
Intel Inside nasceva precisamente con l’intento di coprire il vuoto che andava creandosi, promuovendo il colosso di Santa Clara in modo trasversale nel sempre più vivace e polverizzato mercato del PC. Ancora due anni e sarebbe arrivato il momento di “Pentium”.
Dopo dieci anni, la successiva milestone del brand marketing Intel è stata “Centrino”, che nel 2003 ha delineato la nuova strategia attraverso cui Intel cerca di ritagliarsi spazio nell’ormai “atomizzato” mercato PC. La formula magica è diventata “think platform”: raggruppare prodotti complementari sotto un brand “ombrello” per ottenere nuove occasioni di visibilità, cavalcando l’ormai patologica intercambiabilità fra i marchi degli OEM.
300 milioni di budget per il marketing e un mix azzeccato di tecnologie (CPU, chipset, e adattatore wireless), hanno reso Centrino un enorme successo commerciale oltre che un mantra dell’informatica moderna. Così tanto da rendere ancora più opachi i marchi degli OEM ed ancora più nervosi i loro product e brand manager, esterrefatti di fronte a schiere di clienti ipnotizzati dal marchio di un loro fornitore più che dal loro.
Era necessaria questa digressione per parlare di VAIV (scriverlo in caratteri fonetici se possibile)? Credo di sì.
Innanzitutto il naming: se Centrino non provoca salti di gioia – e con un budget adeguato anche quella parola che inizia con c e finisce con acca diventa un cult – notevole è invece il fatto che ripercorrendo la strada aperta da Centrino, VIIV rischi dopo un solo anno di finire nell’affollata lista nera dei fiaschi informatici. La questione non segna però la fine della filosofia che ha ispirato Centrino, quanto piuttosto una sua silenziosa evoluzione.
Analizzando il “metodo Centrino”, in VIIV appare subito qualcosa di stonato; innanzitutto il mix di prodotti – CPU, chipset, software, DRM e scheda di rete – è più allettante per MPAA che non per l’acquirente, e la cosa di questi tempi tende a non passare inosservata. Poi VIIV fa riferimento a un mercato, quello desktop (e io sono fra quelli che si ostina a non ritenere media center un segmento rilevante), molto più aperto di quello notebook alla personalizzazione delle configurazioni: l’hardware che lo compone è ampiamente disponibile isolatamente. Inoltre questa volta non c’è alcuna rivoluzione tecnologica della portata del wireless da cavalcare. Infine gli OEM hanno imparato la lezione di Centrino e vanno apprendendo da Apple che a fare dei loro prodotti una vetrina per i propri fornitori ci si rimette quel poco di unicità che in un mercato come quello PC resta da giocarsi.
Insomma, autorevoli commenti e dati di vendita alla mano, le campane a morto iniziano a suonare per VIIV, nato male e già moribondo. La filosofia del “think platform” però non muore: cerca solo strade migliori per affermarsi. I due più grandi produttori di CPU hanno già smesso di essere fornitori di chipperia assortita, e si preparano a cambiare il mercato senza adesivi né pecette, ma con radicali innovazioni architetturali promosse attraverso solide partnership tecnologiche (il marketing stavolta lo pagano gli OEM). Sarà probabilmente questa la fine del PC 1.0 : la fine, senz’altro silenziosa, di un oggetto divenuto troppo anarchico e indefinito per continuare a far felici produttori e consumatori. Anche se non verserò una lacrima ai funerali di VIIV, appartengo alla categoria di quelli che già da un po’ pensavano che fosse ora.
Alessio Di Domizio
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