Una dozzina d’anni di presenza su Internet, ai ritmi con cui la rete si evolve, mi basta per sentirmi un net-matusa. Me ne accorgo osservando con gli occhi fuori dalle orbite acquisizioni che riecheggiano sonori fallimenti passati o leggendo di cifre enormi per la valutazione di aziende titolari di asset inesistenti o molto eterei. Per risollevarmi un po’ il morale allora mi metto a pensare che dopotutto certi paletti resistono all’invadenza della modernità: il danaro per esempio. Finché non nascerà sugli alberi non sarà possibile spenderlo senza attenzione al profitto.
Dopo il “botto” del 2001 lo hanno capito in molti ma, nella seconda metà del decennio, si è tornati a investire parecchio sulle promesse. Le acquisizioni di business legati al “social networking” indicano oggi una nuova parola d’ordine: acquistare community.
Le acquistano consumati imprenditori del settore media, come Murdoch, per vendere spazi agli advertiser (Google nell’agosto 2006 ha segnato un accordo del valore di 900mln per l’advertising in esclusiva su MySpace), o direttamente gli operatori dell’advertising (Google acquista Youtube).
Insomma, il gioco delle acquisizioni è cambiato, si è fatto duro e solo i duri ormai possono giocare, ma qualcosa mi fa pensare che sia parente di quello che nel 2001 ha mandato a carte 48 tante aziende e tradito tanti investitori.
Qui arriviamo alla lama del rasoio: pur sentendomi un po’ matusa, non penso di essere l’unico “netizen” che non ha un account MySpace, o che non ha mai postato su Youtube il video della zia che scivola sulla buccia di banana. Più in generale, già nel 1999 c’era gente che iniziava ad intuire il valore delle community: abbastanza da incentivarle in tutti i modi ma anche da capire che possono sciogliersi come neve al sole. Davanti alle cifre delle ultime acquisizioni, questo diventa un grosso problema.
A lenire queste prospettive catastrofiche è la configurazione ormai oligopolistica del mercato delle Internet company, che alza la posta dell’ingresso nel settore a un livello tale che possono permettersi di entrarci solo quei pochi che guardacaso ci sono già dentro. Il danaro circola e si scambia sempre più fra le stesse mani, a differenza di quanto accadeva intorno al 2000, quando sul campo erano molti, e -uforici e spregiudicati.
L’oligopolio frena dunque la concorrenza e i contraccolpi che possono derivarne, ma non è detto che da solo possa alimentare la crescita del settore o tamponare problemi di natura legale.
Gli analisti iniziano ad accorgersi che solo una piccola minoranza degli utenti di Youtube è attiva produttrice di contenuti. Se tutti gli altri fruissero perlopiù di materiali protetti, non sarebbe Youtube appeso alla compiacenza delle major? E se venisse fissata per legge la responsabilità del vettore di contenuti sulla diffusione del contenuto stesso? D’altro canto gli accordi di Google per l’advertising su MySpace sono sì superiori in valore alla somma che Murdoch spese nel 2005 per acquistarlo, ma anche vincolati a dei target di traffico. Non sono queste delle grosse spade di Damocle per l’uno e l’altro? Certo, nel primo caso quel velo di segreta compiacenza che rende rari gli scontri frontali fra enormi multinazionali potrebbe comporre fuori dai tribunali il problema, non senza cospicui esborsi. Dall’altro lo stesso mercato oligopolistico è di poco aiuto per scongiurare un calo d’interesse, un arresto del trend di crescita di MySpace o addirittura un suo declino, che lo porterebbe forse a scomparire con la stessa velocità con cui è cresciuto (*). Particolarmente in quest’ultimo caso, sospetto che saranno in molti, e non solo net-matusa, a non accorgersene nemmeno.
Alessio Di Domizio
(*) Se un produttore di un bene materiale o tecnologico può recuperare quote agendo su fattori come prezzo, qualità, feature, su cosa può intervenire chi ha scommesso centinaia di milioni sulla crescita di una community?
Le precedenti Rasoiate sono disponibili a questo indirizzo