Innocence of Muslims, il copyright non è censura

Innocence of Muslims, il copyright non è censura

Cinque secondi da attrice non possono giustificare la scomparsa di un video che ha scosso cronache e palazzi. Il diritto ad informarsi, anche attraverso Google e YouTube, non può essere adombrato da labili rivendicazioni che si aggrappano al diritto d'autore
Cinque secondi da attrice non possono giustificare la scomparsa di un video che ha scosso cronache e palazzi. Il diritto ad informarsi, anche attraverso Google e YouTube, non può essere adombrato da labili rivendicazioni che si aggrappano al diritto d'autore

I pochi minuti di Innoncence of Muslims erano riusciti a infiammare il Medioriente con una rappresentazione deformata dell’Islam, erano riusciti deformare le leggi che tutelano il diritto d’autore nel nome delle rivendicazioni di una attrice che, suo malgrado, aveva preso parte alla realizzazione del video: Google era stata obbligata ad estrometterlo dalla Rete e a rimuoverlo da YouTube. Il breve video, inevitabilmente rilanciato online, non ha motivo di scomparire, anzi: il diritto d’autore, ha stabilito la corte d’appello incaricata di giudicare il caso, non può essere imbracciato come strumento di censura.

A chiamare in causa Google, in qualità di responsabile di YouTube e in qualità di gatekeeper della Rete con il proprio motore di ricerca, era stata l’attrice Cindy Lee Garcia, sulla quale si era abbattuta una fatwa per aver recitato, doppiata, 5 secondi di un ruolo non previsto nel momento casting. La donna, per ottenere la rimozione generalizzata del video, aveva fatto leva sui suoi presunti diritti d’autore: era riuscita a convincere la giustizia statunitense del fatto che il suo contributo non creativo alla realizzazione dell’opera, per cui è stata retribuita 500 dollari, potesse garantirle la possibilità di rivendicare la sparizione dalla rete di un’opera troppo diversa da quella per cui era stata assunta .

Google, fin dall’inizio del processo, aveva combattuto strenuamente : nell’appello Mountain View contestava l’anomalia interpretativa rispetto alle leggi che tutelano il copyright e denunciava la compressione della libertà dai cittadini della Rete di informarsi riguardo a un video che si è reso protagonista delle cronache e del dibattito politico. Google aveva inoltre sottolineato l’inadeguatezza dei termini dell’ordine del tribunale che le aveva imposto la cancellazione e la deindicizzazione di tutte le occorrenze passate presenti e future di un contenuto che, proprio sull’onda della censura, si è moltiplicato online in maniera incontrollabile.

La sentenza della corte d’appello, pur ammettendo la delicatezza della posizione dell’attrice, riconosce ora a Google tutte le ragioni: “una debole rivendicazione di diritto d’autore – ha affermato il giudice Margaret McKeown – non può determinare una censura giustificata da una presunta paternità”.

L’opinione del giudice è netta: avallare le richieste di Garcia significherebbe aprire la strada a miriadi di rivendicazioni da parte di chiunque partecipi con qualsiasi ruolo alla realizzazione di un’opera creativa, concedendo a chiunque poteri censori nel nome della tutela del copyright, che peraltro negli States, per i film, non prevede diritti morali . È naturale che a una comparsa di Ben Hur non possa essere riconosciuto il diritto di bloccare la circolazione del film: “considerare ogni performance come un’opera indipendente – spiega il giudice – non solo sarebbe un incubo dal punto di vista logistico e finanziario, ma trasformerebbe cast con numeri da kolossal in un nuovo mantra: copyright per migliaia di persone.”
Il diritto d’autore, esplicita la sentenza, secondo la giurisprudenza deve essere riconosciuto “a coloro che di fatto creano l’opera, vale a dire coloro che traducono un’idea in una forma di espressione stabile e tangibile”. Certo non ad una attrice che recita in un frammento di cinque secondi di un’opera che lei stessa disconosce.
Garcia, suggerisce piuttosto la corte d’appello, avrebbe potuto fare leva sul proprio diritto alla privacy e alla tutela della propria reputazione: “Sfortunatamente per Garcia – si osserva però – il diritto all’oblio, nonostante sia stato di recente affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, non è riconosciuto negli Stati Uniti”.

La Corte d’Appello, inoltre, argomenta le motivazioni per cui la sentenza di primo grado sia da considerare inadeguata per l’inadeguato bilanciamento dei diritti in gioco , una dubbia rivendicazione di diritti d’autore e il diritto inalienabile del cittadino di informarsi: “l’ingiunzione ha censurato un video politicamente significativo sulla base di una interpretazione del copyright senza precedenti (…) negando al pubblico la possibilità di visionarlo e di giudicarlo autonomamente”.

Non è chiaro se Google provvederà ora a sbloccare l’accesso ai video prima resi irraggiungibili, o se si limiterà a riaccogliere le eventuali successive pubblicazioni. Se l’avvocato di Garcia lamenta una inopportuna estensione del Primo Emendamento della Costituzione statunitense che ha trasformato la libertà di espressione in uno strumento prestato alla diffusione di messaggi d’odio, le associazioni che si battono a tutela dei diritti dei netizen come EFF e Public Knowledge danno il benvenuto ad una sentenza che avrebbe dovuto essere emessa in precedenza, per dimostrare che il regime di terrore creato dagli estremisti dell’Islam intorno al video non può essere assecondato con certi estremismi nell’interpretazione del diritto d’autore.

Gaia Bottà

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Pubblicato il
20 mag 2015
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