L’European Innovation Scoreboard è una sorta di pagellino con cui da anni (se ne parlava qui con preoccupazione già nel 2006) si fotografa la capacità di innovare di un paese, poiché in questa pesatura calibrata (alla quale contribuisce una lunga lista di componenti variegate) è possibile intravedere il futuro di uno Stato e la sua capacità di costruire il futuro stesso. Il punteggio EIS 2020 non è per nulla negativo per l’Italia, anzi: il voto, per certi versi, potrebbe addirittura definirsi lusinghiero dopo troppi anni di inerte e lascivo adagiamento su una semplice sufficienza.
EIS 2020: cosa va, cosa non va
Tuttavia fermarsi al voto sarebbe superficiale e fuorviante: occorre capire nel merito ciò che l’EIS ci racconta a proposito dell’Italia e delle capacità italiane di innovare. Occorre quindi partire anzitutto dagli aspetti positivi, quasi tutti registrati al capitolo “Innovators”: l’UE premia infatti l’attivismo che ha circondato il settore negli ultimi anni, tanto che lo score complessivo è stato in grado di salire, anche e soprattutto grazie a questo balzo, da 80 a 90 nel giro di 3 anni dopo un lunghissimo periodo privo di scostamenti.
Se la promozione tra gli innovator è piena, i giudizi sono positivi anche nel settore della ricerca e della registrazione di proprietà intellettuali. Se poi tutta questa innovazione non viene messa sempre a terra (infatti l’impatto su vendite e mercato resta inesorabilmente basso), allora il problema è un altro e per molti versi la risposta è in quel fondo Enea Tech che farà del trasferimento tecnologico la sua vocazione primaria.
Il tasto dolente: l’università
Il tasto dolente fotografato dall’EIS è nella scuola. Se i dati relativi alla formazione di base sono difficilmente migliorabili, poiché legati a problemi generazionali e l’evoluzione in tal senso potrà avvenire soltanto nel lungo periodo, i dati relativi ai giovani laureati è invece un campanello d’allarme che deve suonare fortissimo nel sistema Italia. Se nel 2012 le performance nostrane meritavano uno score pari a 82,4, oggi il punteggio scende ad appena 72,9 precipitando pericolosamente verso quel 66,2 che rappresenta la media europea. I dati, del resto, erano stati fotografati allo stesso modo anche dall’Istat: i diplomati sono in Italia quasi il 18% in meno rispetto alla media europea, quindi giocoforza il traino verso la laurea è pesantemente minore ed il numero di chi giunge al traguardo è estremamente ridotto.
Ma l’Italia, per vocazione e natura, non può in alcun modo accontentarsi della mediana: se la forza del nostro paese è sempre stato in ingegno e creatività, lo studio dovrebbe essere un elemento basilare irrinunciabile, poiché base fondamentale per il futuro delle nuove generazioni.
Nelle settimane in cui milioni di persone sono interessate dalla scelta dell’Università, particolarmente importante è individuare quali problematiche scoraggino a tale scelta o non aiutino parte dei più giovani a scommettere sullo studio. I dati EIS devono essere letti soprattutto in quest’ottica, perché il dato è preoccupante e richiede un impegno politico preciso. Le promesse relative ai milioni di posti di lavoro hanno fatto il loro tempo, perché se il lavoro è fondamentale per il presente, lo studio è necessario per il futuro. Lo richiedono le aziende di domani, l’economia di domani e le famiglie di domani.