Cosa siamo noi se non il volume che va dal nostro cranio ai nostri piedi, dove il confine è con la Terra? Eppure, quando sfioriamo per la prima volta la mano dei nostri genitori, improvvisamente il nostro confine si allarga di alcuni metri, là dove la vista ci fa sentire protetti e sicuri. Sarà la scuola a portarci fuori casa, sarà una partita di calcio a farci sentire parte di una nazione. Poi iniziano le resistenze, perché il mondo di oggi è formattato sull’idea per cui i confini non siano facilmente traslabili: li abbiamo scritti su carta, li abbiamo rinforzati nella storia, li francobolliamo in un passaporto e raramente (solo al prezzo del sangue), cadono. Più facilmente, ultimamente, se ne erigono.
Eppure da quel giorno tutti i confini sono un po’ più deboli, o quantomeno più sottili. Sono più virtuali, meno credibili di quel tratto di matita che li ha tracciati su una mappa. Quando abbiamo messo piede sulla Luna ed abbiamo guardato la Terra, tutto si è ribaltato.
La Terra, vista dalla Luna
Da quando abbiamo le immagini da lassù, e sappiamo che quel lassù è raggiungibile, i confini quaggiù sono qualcosa di più risibile. Sia pur se irrinunciabili dal punto di vista organizzativo (non sarà un colpo di spugna a cancellare secoli di storia), i confini altro non sono se non la più flebile delle divisioni di questo pianeta. Faglie sotterranee, litorali e catene montuose valgono ben di più. Ma per capirlo abbiamo dovuto vedere tutto dall’alto.
Non appena abbiamo messo piede sulla Luna, benché le bandiere della missione fossero ben in vista, Neil Armstrong pronunciò una frase dal potere abnorme, qualcosa di impareggiabile che ogni copywriter al mondo probabilmente invidia: “un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità” (così la tradizione la vuole tradotta nella nostra lingua). Si parla subito di umanità, un’umanità sola e unica. Dove le bandiere rimangono, ma i confini cadono. Quel giorno l’uomo ha esteso i suoi confini molto più in là, rendendo risibile tutto quel che era stato: un pianeta appena uscito da una tremenda guerra mondiale, un pianeta che aveva vissuto la ferita di Hiroshima e che temeva una nuova escalation, inconsciamente aveva proiettato le proprie pulsioni verso il cielo: la prova muscolare tra le superpotenze diventò una gara al successo, ma il successo fu qualcosa di valenza ben più ampia. Andare sulla Luna sciolse la guerra fredda? No, infatti durò ancor molto. Ma è innegabile come iniziare ad occupare lo spazio rese più piccole le cose del mondo.
C’era forse molta strategia in questa estensione del successo a valore planetario. C’era nelle parole di Kennedy prima e di Nixon poi, così come c’era nell’iscrizione lasciata a terra dagli astronauti: ancora una volta si parlava di “tutta l’umanità”. Se quell’impronta lasciata sul suolo lunare era una impronta americana, nella percezione collettiva era invece realmente un passo intimamente di tutti. Nessuno poteva sentirsene escluso. L’innovazione aveva spinto talmente oltre l’uomo, che l’innovazione stessa ne era confine. E da allora è sempre stato così.
A distanza di tanti anni, la pulsione è quella di allargare ancora una volta il confine. Ma i tempi son lunghi, c’è una generazione che sta perdendo il treno: i figli di chi ha visto l’uomo mettere piede sulla Luna speravano di mettere piede su Marte, ma le difficoltà sono più di una. Ci siamo andati con i rover, valga da placebo. Ma non ci si accontenti, perché la fantasia ancora vola assieme al Voyager…