Il 2009 si è chiuso con due provvedimenti che hanno, nello spazio di poche settimane, rimesso prepotentemente in discussione il regime della responsabilità degli intermediari della comunicazione che operano nel nostro Paese.
Prima il Tribunale di Roma nell’ambito della vicenda Mediaset c. YouTube e, quindi , la Corte di Cassazione nel caso della Baia dei Pirati, infatti, hanno proposto interpretazioni fortemente restrittive della disciplina relativa all’assenza di un obbligo generale di sorveglianza degli intermediari della comunicazione contenuta nella Direttiva 31/2000 e recepita nel nostro Paese con il D.lgs 70/2003 .
Si tratta di due provvedimenti resi in procedimenti di natura sommaria ma, nonostante ciò, le conclusioni cui sono pervenuti i giudici, devono far riflettere.
Il Tribunale di Roma, infatti, nell’ordinare a Google di rimuovere dalle pagine di YouTube tutti i video del Grande Fratello 10 e nell’inibire a Big G la prosecuzione di tale attività ha messo nero su bianco un principio dirompente secondo il quale “la normativa – vedi dlgs n. 70/2003 – e la giurisprudenza” starebbero ” ormai orientandosi nel senso di una valutazione caso per caso della responsabilità del provider che seppur non è riconducibile ad un generale obbligo di sorveglianza rispetto al contenuto non ritenendosi in grado di operare una verifica di tutti i dati trasmessi che si risolverebbe in una inaccettabile responsabilità oggettiva, tuttavia assoggetta il provider a responsabilità quando non si limiti a fornire la connessione alla rete, ma eroghi servizi aggiuntivi (per es. caching, hosting) e/o predisponga un controllo delle informazioni e, soprattutto quando, consapevole della presenza di materiale sospetto si astenga dall’accertarne la illiceità e dal rimuoverlo o se consapevole dell’antigiuridicità ometta di intervenire “.
Ci sono alcuni aspetti della decisione che meritano attenzione più degli altri.
Il primo è rappresentato dalla circostanza che, in un procedimento nell’ambito del quale Mediaset chiedeva la rimozione di frammenti di proprie opere audiovisive e l’inibitoria ad ogni ulteriore diffusione attraverso YouTube, ci si sia ritrovati ad affrontare la questione della responsabilità degli intermediari della comunicazione per i contenuti prodotti e pubblicati dagli utenti.
L’ art. 156 della legge sul diritto d’autore – correttamente azionato dalla difesa del Biscione – infatti consente ai titolari dei diritti di richiedere al Giudice di ordinare all’intermediario della comunicazione i provvedimenti necessari a porre fine ad una violazione dei propri diritti da chiunque perpetrata ed a prescindere da qualsivoglia responsabilità dell’intermediario medesimo.
In tale contesto, nel corso del procedimento, ci si sarebbe dovuti limitare ad accertare – in via sommaria – se la diffusione al pubblico dei video del Grande Fratello costituiva o meno una violazione dei diritti d’autore di cui è titolare Mediaset e, in caso di risposta affermativa, ordinarne a Google la rimozione non in quanto responsabile della violazione ma, più semplicemente, perché gestore della piattaforma. Tale ordine, peraltro, avrebbe dovuto essere subordinato alla puntuale individuazione da parte di Mediaset dei video oggetto di contestazione già pubblicati e di quelli ulteriori eventualmente pubblicati successivamente al provvedimento.
L’art. 156 LDA, infatti, non consente di porre a carico dell’intermediario della comunicazione – come, invece, accaduto nel caso di specie – l’onere di ricercare le altrui violazioni dei diritti di proprietà intellettuale del ricorrente e di rimuoverne gli effetti.
Che l’abbiano “imposto” gli avvocati delle parti con le proprie difese o, invece, che si sia trattato di una scelta del Giudice, invece, nel provvedimento si parla reiteratamente di responsabilità dell’intermediario, anticipando, così, in buona misura l’esito del giudizio di merito pendente tra le stesse parti (n.d.r. si tratta del famoso giudizio nell’ambito del quale Mediaset ha chiesto a Google un risarcimento di 500 milioni di euro).
È stato un errore perché, così facendo, ci si è ritrovati ad affrontare, con i tempi e le modalità proprie di un procedimento cautelare, una questione complessa e delicata quale, appunto, quella della responsabilità degli intermediari della comunicazione per i contenuti creati e pubblicati dagli utenti.
Un secondo aspetto della decisione di particolare rilievo è costituito dall’idea – che traspare a chiare lettere dall’ordinanza del Tribunale di Roma – secondo la quale sarebbe onere del provider, qualora a conoscenza della presenza di contenuti “sospetti” sulla propria piattaforma di “accertarne” l’eventuale illiceità. È una conclusione che non convince e, anzi, preoccupa.
L’accertamento dell’illiceità di una condotta – online come offline – spetta, e deve spettare, in ogni Stato di diritto, solo ed esclusivamente all’autorità giudiziaria mentre non può e non deve essere imputata – direttamente o indirettamente – ad un soggetto privato quale un intermediario della comunicazione. Tradire tale principio di diritto significa esporre ad un rischio elevato la libertà di manifestazione del pensiero in Rete ed abilitare – come, sfortunatamente, sta già accadendo – forme di censura privata poste in essere dagli intermediari della comunicazione in chiave difensiva ovvero per sottrarsi ad eventuali responsabilità loro imputate per contenuti creati e pubblicati dagli utenti.
Come, puntualmente, ha ricordato l’Avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, “l’obiettivo della Direttiva 2000/31 è di creare uno spazio libero, pubblico e aperto su Internet, cosa che (n.d.r. la direttiva) cerca di fare limitando la responsabilità di coloro che trasmettono o ospitano le informazioni ai soli casi nei quali, questi ultimi, sono coscienti dell’esistenza di una illegalità”.
Demandare agli intermediari della comunicazione l’accertamento dell’illiceità o meno dei contenuti pubblicati dagli utenti significa, inesorabilmente, rinunciare a perseguire tale obiettivo e, quindi, ad uno spazio pubblico online, nell’ambito del quale la libertà di manifestazione del pensiero possa effettivamente essere esercitata con il solo limite già previsto all’art. 14 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: l’obbligo di rispondere di ogni eventuale abuso.
L’aspetto della decisione del Tribunale di Roma che, tuttavia, lascia più perplessi è, certamente, rappresentato dall’idea secondo la quale la sussistenza o meno di una responsabilità degli intermediari della comunicazione in relazione ai contenuti pubblicati dai propri utenti andrebbe valutata “caso per caso”. Mentre, infatti, non vi è dubbio che la qualificazione di un soggetto quale intermediario della comunicazione ai sensi della vigente disciplina della materia sia accertamento sia da compiersi caso per caso in relazione alla specifica attività svolta da ciascun intermediario, non può condividersi l’idea secondo la quale il regime di responsabilità al quale sarebbe assoggettabile un provider andrebbe accertato “caso per caso”. Tale approccio, infatti, pone in crisi la certezza del diritto e rischia di minare il diffondersi di numerosi modelli di business e tipologie di attività caratteristiche del cosiddetto web 2.0. Al di là del caso specifico – difficile contestare la circostanza che la vigente disciplina sul diritto d’autore, giusta o sbagliata che sia, esigesse la rimozione dei video del Grande Fratello da YouTube – pertanto il contenuto dell’Ordinanza del Tribunale di Roma “minaccia” di ridisegnare limiti e confini della responsabilità degli intermediari della comunicazione nel nostro Paese.
Altrettanto preoccupante è il contenuto della Sentenza resa dalla Corte di Cassazione nel caso The Pirate Bay.
Scrivono, infatti, i Giudici della Suprema Corte a proposito della responsabilità dei gestori del sito in relazione ai contenuti oggetto di condivisione tra gli utenti: ” Se il sito web si limitasse a mettere a disposizione il protocollo di comunicazione (quale quello peer to peer) per consentire la condivisione di file contenenti l’opera coperta da diritto d’autore, ed il loro trasferimento tra utenti, il titolare del sito stesso sarebbe in realtà estraneo al reato. Però se il titolare del sito non si limita a ciò ma fa qualcosa di più – ossia indicizza le informazioni che gli vengono dagli utenti, che sono tutti potenziali autori di uploading, sicché queste informazioni (i.e. chiavi di accesso agli utenti periferici che posseggono, in tutto o in parte, l’opera), anche se ridotte a minimo, ma pur sempre essenziali perché gli utenti possano orientarsi chiedendo il downloading di quell’opera piuttosto che un’altra, sono in tal modo elaborate e rese disponibili nel sito, ad es. a mezzo di un motore di ricerca o con delle liste indicizzate – il sito cessa di essere un mero “corriere” che organizza il trasporto dei dati. C’è un quid pluris in quanto viene resa disponibile all’utenza del sito anche un’indicizzazione costantemente aggiornata che consente di percepire il contenuto dei file suscettibili di trasferimento. A quel punto l’attività di trasporto dei file non è più agnostica; ma si caratterizza come attività di trasporto di dati contenente materiale coperto da diritto d’autore. Ed allora è vero che lo scambio di file avviene da utente ad utente (peer to peer) ma l’attività del sito web (al quale è riferibile il protocollo di trasferimento e l’indicizzazione dei dati essenziali) è quella che consente ciò e pertanto c’è un apporto causale a tale condotta che ben può essere inquadrato nella partecipazione imputabile a titolo di concorso di persone ex art. 110 c.p. “.
L’attività di qualsiasi ISP, ancorché giuridicamente neutra o, piuttosto “agnostica” – come scrivono i Giudici della Suprema Corte – costituisce sempre un apporto causale determinante nella condotta dell’utente, consentendo – almeno sotto un profilo tecnico – la comunicazione o diffusione di un contenuto che, in assenza di tale attività, sarebbe rimasto sul PC dell’utente medesimo.
Sarebbe, ritengo, tuttavia un errore – e tradirebbe, ancora una volta, ratio e lettera della disciplina europea in materia di responsabilità degli intermediari della comunicazione – concludere che in presenza di tale apporto occorra sempre ritenere sussistente la responsabilità di un ISP. In Rete, infatti, pochi – se non nessuno – sono in condizione di porre in essere integralmente una condotta in assenza dell’attività determinante di uno o più ulteriori soggetti coinvolti, a vario titolo, nella gestione del contenuto nello spazio telematico.
Le due decisioni rivelano un’evidente sensazione di smarrimento dei nostri Giudici dinanzi all’esigenza di ricondurre talune attività di intermediazione della comunicazione alle figure tipiche (hosting, caching e mere conduit) oggetto della disciplina europea sul commercio elettronico ed una diffusa tendenza a proporre interpretazioni restrittive di tale disciplina, preferendo valutare l’attività degli intermediari della comunicazione alla stregua degli ordinari principi di diritto.
Non sta a me valutare se, nei casi nell’ambito dei quali sono stati pronunciati i due richiamati provvedimenti, sia stato o meno corretto ritenere sussistente la responsabilità, rispettivamente, di Google e Pirate Bay ma, francamente, faccio fatica a ritenere condivisibili le decisioni cui sono pervenuti i magistrati alla stregua della vigente disciplina sulla responsabilità degli intermediari della comunicazione. Se tale disciplina – come appare probabile – non è più attuale e al passo con i tempi, la si cambi – e lo si faccia, almeno, a livello europeo. Ma, sino a quel momento, credo occorra applicarla in maniera puntuale e rigorosa, rifuggendo la facile tentazione di applicare a tali fattispecie gli ordinari principi di diritto: in gioco non vi sono solo aspetti di carattere economico ma, piuttosto, il futuro della libertà di manifestazione del pensiero online.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it