All’ Internet Governance Forum 2010 , edizione Italia, si è materializzata la proposta che da anni si rincorre nel Belpaese (e fuori) sostenuta da Stefano Rodotà : abbandonata per una volta la “Internet Bill Of Rights”, la carta dei diritti di Internet , il professore ed ex-garante per la protezione dei dati personali ha lanciato una nuova iniziativa. Questa volta, in luogo di un approccio parallelo, si è scelta la via costituzionale : un articolo 21 bis da sommare alla carta del 1947, un articolo scritto apposta per trasformare Internet in un diritto sancito dalla Costituzione italiana. Una scelta che, per diverse ragioni, presta il fianco ad alcune critiche.
Innanzi tutto è bene chiarire quale sia il testo proposto. In aggiunta alle disposizioni dell’articolo 21 (quello dedicato alla libertà di stampa e d’espressione), secondo il professor Rodotà andrebbe specificato che:
Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale.
Analizzando il testo si possono cogliere i seguenti punti fondamentali: il nuovo articolo bis si concentra essenzialmente sulla problematica del digital divide quando dice “con modalità tecnologicamente adeguate”, e pone sulle spalle dello Stato il suo superamento. Tutti i cittadini, “in condizione di parità” devono avere accesso a Internet: devono farlo “con modalità tecnologicamente adeguate”, ovvero bando alle connessioni dialup e spazio a un ADSL quantomeno decente, senza che il costo di questa connessione ricada sulle spalle dei cittadini stessi (“che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”).
In un certo senso, l’articolo è stato scritto per designare Internet come “servizio universale” (senza tuttavia definirlo tale in modo rigoroso): questo significa che lo Stato dovrebbe intervenire per colmare eventuali carenze infrastrutturali , laddove gli operatori dovessero decidere di non ritenere economicamente conveniente investire, che lo Stato dovrebbe preoccuparsi di garantire un mercato “calmierato” per evitare distorsioni anticompetitive, che lo Stato dovrebbe decidere in anticipo i limiti di questo servizio e quali siano i soggetti coinvolti nel garantire la fornitura dello stesso agli utenti finali.
Come le polemiche che hanno circondato negli ultimi mesi la questione negli Stati Uniti dimostrano, si tratta di un passo tutt’altro che scontato: se oggi il servizio telefonico è ritenuto in maniera pressoché universale un servizio universale, lo stesso non si può dire e non è mai stato per Internet. Lo sviluppo impressionante che ha attraversato la Rete negli ultimi 15 anni ha posto sulle spalle degli operatori (incumbent e non) un peso notevole sotto il profilo degli investimenti in infrastruttura: qualunque sia l’opinione che si abbia sulla condotta e sugli obiettivi degli operatori, va riconosciuto che il percorso che ha portato il telefono in tutte le case è stato decisamente più graduale e progressivo rispetto alla fame incessante di megabit che contraddistingue il mondo occidentale.
Soprattutto, la nomina di Internet a “servizio universale” giungerebbe oggi in un mercato che (almeno formalmente) è libero e liberalizzato: mancando un monopolista effettivo, dovendo garantire la libera competizione, qualunque tentativo normativo in questo senso si scontrerebbe con la legislazione nazionale e continentale vigente. Senza dimenticare che già la Commissione europea è intervenuta , ad esempio, nella questione della banda ultra-larga (NGN o NGA che dir si voglia), suggerendo agli stati membri di adottare per l’appunto un approccio di sostegno alle zone a fallimento di mercato, allo scopo di garantire a tutti i cittadini l’arrivo della fibra nelle case e nelle aziende.
Per quanto attiene la definizione di Internet come diritto costituzionale, dunque, appare difficile che si riesca a incastonare questi concetti nel quadro attuale. È pur vero che la Costituzione venne promulgata nel 1947, dunque quando Internet non esisteva , ma è altrettanto vero che proprio per questo motivo l’inserimento nella stessa di elementi estranei al contesto storico in cui venne redatta appare complesso.
Inoltre, vale la pena ricordare il testo di almeno altri due articoli già presenti nella Carta. L’ articolo 3 recita :
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Va da sé che tra “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” ci sia per esempio il digital divide. Senza Internet a casa o in azienda, oggi, appare difficile che un cittadino possa informarsi, dialogare con le istituzioni , relazionarsi con il suo prossimo, appare improbabile che un imprenditore possa interfacciarsi con fornitori e appaltatori , inoltrare documentazione, fare affari.
L’ articolo 21 , quello emendato dalla proposta Rodotà, ha invece questo incipit:
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
Anche in questo caso, evidentemente la saggezza dei costituenti ha fatto sì che sotto l’ombrello di “ogni altro mezzo di diffusione” potessero ricadere tutte le successive forme di comunicazione sviluppatesi negli ultimi 50 anni : la televisione, la radio (che pure non è menzionata esplicitamente) e oggi Internet.
In definitiva, la Costituzione italiana già oggi sembra garantire il diritto di accesso a Internet ai suoi cittadini : il rafforzamento di questo principio, seppure meritorio, appare dunque forse eccessivo o pleonastico. Se, fino ad oggi, le garanzie della Carta non hanno consentito allo Stato di mettere in campo un programma economico, legislativo, normativo per consentire il superamento del digital divide, l’alfabetizzazione digitale, la digitalizzazione delle PA, l’ammodernamento e lo sviluppo della infrastruttura delle telecomunicazioni, non si vede come tre righe aggiunte alla Costituzione potrebbero sancire l’inizio di un cambiamento.
Allo stesso modo in cui l’articolo 21 bis pone Internet al centro di un diritto del cittadino, l’articolo 32 già oggi garantisce l’assistenza sanitaria in Italia, e l’articolo 33 istituisce il diritto all’istruzione: sono entrambi temi da tempo al centro del dibattito politico, spesso finiti nella cronaca anche per la carenza del primo e per il ridimensionamento del secondo. Nonostante la garanzia costituzionale, dunque, non ci sarebbe garanzia effettiva di un accesso a Internet per tutti a meno di una precisa volontà politica di attuare questa disposizione.
Evidentemente la strategia del professor Rodotà, che sa il fatto suo, non è volta ad affermare che Internet debba essere un diritto costituzionale, attendendosi un effetto cascata che da un giorno all’altro porti la connettività a banda larga in tutte le case. È un tema che lo stesso professore ammette deve servire a porre in agenda la questione del digital divide e l’attenzione verso le nuove tecnologie: il vero rischio in questo caso, tuttavia, è che il fervore legislativo possa spingersi troppo oltre , arrivando a determinare sovranità, limitazioni, normazioni che mal si sposano col carattere sovranazionale e antilimitante di Internet.
L’accesso a Internet non ha bisogno di essere un diritto costituzionale: Internet non ha bisogno di essere “regalata” dalla politica ai cittadini, sono i cittadini che vogliono Internet, hanno bisogno di Internet, chiedono Internet al proprio governo e alle proprie istituzioni per completare il percorso di socializzazione e relazione. Non occorre firmare petizioni o indire crociate parlamentari (ricordiamo che una legge costituzionale richiede la doppia lettura nei due rami del Parlamento, e ammesso che venga calendarizzata subito richiederebbe almeno 6-9 mesi per essere approvata: nel quadro politico attuale appare improbabile, senza contare l’eventuale referendum confermativo): la domanda per la banda larga, l’NGN e le infrastrutture tecnologiche nel nostro Paese c’è già, la politica deve solo prenderne atto e provvedere , come fa quando delibera la costruzione di un’autostrada o di una tratta ferroviaria. È importante porre in evidenza la centralità di Internet, la sua diffusione e la sua promozione in Italia, rispetto al futuro economico del Paese: un paese che si prefigge di essere un economia prospera oggi non può ignorare la Rete .
Il rischio di intraprendere il percorso costituzionale è che la spinta propulsiva data dal nobile intento possa esaurirsi con l’approvazione della legge e la sua promulgazione: di un Internet diritto costituzionale ce ne faremmo ben poco senza un Internet realmente nelle case di tutti gli Italiani . Il rischio di intraprendere il percorso costituzionale è la deriva populista che questo proposito rischia di imboccare: Internet non è e non deve essere un’elargizione al popolo bue , né tantomeno deve diventare un contentino da 2 megabit. La vera sfida oggi è la creazione di una infrastruttura nazionale a banda ultra-larga, in fibra, neutrale e capillare, che possa diventare la struttura portante di un più ampio rilancio economico e sociale del Paese: su questi temi , e non su altri, vorremmo concentrare l’attenzione nostra e di coloro che hanno a cuore un autentico progetto di sviluppo dell’Italia.
Luca Annunziata