A discapito della vocazione pacifista voluta a tutti i costi nell’industria robotica del Giappone, dall’altra parte del mondo, precisamente negli USA, la robotica è vista come campo ideale per l’avanzamento della ricerca militare. Su tutte va distinguendosi il lavoro di iRobot , azienda che oltre a produrre il pacifico Roomba continua a progettare soluzioni robotiche da essere utilizzate sul campo di battaglia.
Tra le ultime sta riscuotendo notevole successo la versione tascabile del Packbot, il cingolato da ricognizione già sperimentato sul campo. Dal peso ridotto e dalle dimensioni relativamente tascabili, il microbot dal nome Ember è ancora in fase di sviluppo ed è molto simile al fratello maggiore, essendo anch’esso dotato di bracci in grado di permettergli di superare con poca fatica anche terreni non molto convenzionali.
Ember, così come il suo predecessore, rientra nel programma LANdroids, patrocinato direttamente da DARPA : come si evince dal nome del progetto la specialità di questo dispositivo è quella di lavorare in gruppo. L’idea delle organizzazioni militari è quella di dotarsi di una piccola schiera di droni in grado di coprire una maggiore quantità di territorio da ispezionare in minor tempo: Ember è in grado di stabilire con i suoi simili una vera e propria rete wireless utile a trasmettere informazioni alla base operativa, grazie anche alle piccole telecamere montate su ogni esemplare. In tal senso, con un pizzico di fantasia, il lavoro di Ember può essere paragonato ai ragnetti robotici utilizzati per la scansione dell’iride nell’ormai celebre scena di Minority Report.
In materia di dotazione tecnologica, Ember può essere esteso praticamente in materia illimitata, dal momento che è dotato di porte USB e SDIO in grado di ospitare diversi gadget che possono essere selezionati in base alla missione da compiere. Ma il vero vantaggio potrebbe essere dato dal prezzo, che potrebbe aggirarsi intorno ai 100 dollari per unità, incontrando i favori di DARPA che non sembra disposta ad investire più di quella cifra per drone.
In questo caso la tecnologia robotica applicata è volta soprattutto a favorire operazioni di ricognizione, che possono trarre numerosi vantaggi dalle ridotte dimensioni del robot, che può essere rilasciato in massa e coprire una zona molto ampia. Osservando il rovescio della medaglia, è proprio la riduzione delle dimensioni a far presagire che Ember difficilmente verrà utilizzato sul campo di battaglia vero e proprio in prossimità del fronte del fuoco. In tal senso, sono altri i droni che DARPA e soci stanno sviluppando per coadiuvare il comparto umano in battaglia.
Com’è facile ipotizzare, però, dotare di armi letali un robot implica delle conseguenze su cui è necessario riflettere: è questo il motivo per cui Ronald Arkin, professore di informatica presso il Georgia Tech, sta sviluppando una suite di software in grado di indirizzare i droni attraverso complessi calcoli nel comprendere se e quando fare fuoco. Secondo lo scenario ipotizzato dallo studioso, nonostante le decisioni cruciali spettino sempre e comunque all’essere umano che coordina la missione, possono presentarsi alcune situazioni particolari in cui è necessario che il robot sia in grado di prendere decisioni in maniera del tutto autonoma.
Come esempio, Arkin cita una zona controllata dall’alto da un cecchino, posto nelle vicinanze di un luogo di interesse culturale o storico che si vuol preservare. In questo caso, il robot è chiamato a scegliere la modalità di fuoco più adatta, ben sapendo di dover preservare gli edifici circostanti e di arrecare il minor danno possibile. Per questo, una volta individuato il nemico, il drone sceglierà di utilizzare il fucile piuttosto che far saltare tutto in aria con una granata. Per far questo i robot saranno istruiti con tutte le nozioni necessarie in materia di legge militare, e saranno preparati a una serie di situazioni tipo a cui il robot imparerà ad assegnare il diverso grado di azione/conseguenza.
“Per chi non si trovi all’interno di un combattimento, la scelta del fucile potrebbe apparire ovvia, ma va considerato che un soldato che si sente in pericolo di vita tenderà ad attuare situazioni estreme, facendo ricorso al suo istinto di sopravvivenza che potrebbe portarlo a scegliere una soluzione più drastica, con maggiori danni” spiega Arkin. Secondo lo studioso, rendere consapevoli di scelta i droni rappresenta un vantaggio, dal momento che non sono programmati per avvertire emozioni o temere di essere danneggiati irreparabilmente. Nonostante ciò, le idee di Arkin sembrano destinate a non trovare un pieno consenso nell’opinione pubblica, dal momento che il robot dovrebbe essere in grado prima di far fuoco di identificare correttamente il suo obiettivo, stabilendo se si tratti di un militare o di un civile.
Vincenzo Gentile