Smart working, ma non per tutti. La normativa, infatti, è oggi restrittiva ed impedisce di lavorare, anche se in forma agile, anche se isolati nella propria abitazione, per quei dipendenti che siano in una di queste condizioni:
- positivi, anche se asintomatici
- in isolamento, poiché tornati da zone a rischio
Il problema sta nel fatto che la normativa viene applicata rigidamente, in quanto priva di deroghe e possibilità che in questa particolare situazione potrebbero dare ossigeno tanto al lavoratore, quanto all’azienda, quanto ancora alle casse dell’INPS. Quando la salute è in forse ma il benessere è certo, perché non consentire un reciproco accordo per poter continuare a lavorare da remoto, sfruttando quel che lo smart working è in grado di offrire a beneficio di tutti? La riflessione è doverosa, insomma, soprattutto nel contesto di un prossimo confronto tra le parti in causa per capire come affrontare la stagione entrante con i tutti gli interventi correttivi necessari.
Isolati e asintomatici: perché non possono lavorare?
Sicuramente si tratta di casi particolari, ma la mancata disciplina potrebbe costare cara se la pandemia dovesse ulteriormente ampliarsi durante la stagione fredda. Considerando come già oggi facciano parte di questa casistica circa 10 mila italiani (nonostante l’attuale andamento lento e sotto controllo dei contagi), basterebbe una ulteriore accelerazione del trend per trasformare questo problema in un grave ammanco per le aziende ed un grave costo per lo Stato. Meglio pensarci ora, meglio cercare – per quanto possibile – una pezza temporanea che possa orientare futuri interventi strutturali.
Si prenda il caso degli asintomatici, ad esempio: si tratta di persone risultate positive dopo il tampone, ma totalmente ignare di soffrire un qualsivoglia problema. Nessun sintomo, nessuna disfunzione, ma isolati in casa ed impossibilitati a lavorare (e per reciprocità l’azienda è impossibilitata a contare sul loro contributo professionale). Ci deve pensare l’INPS, insomma.
Stessa cosa vale, secondo quanto rivelato dal Corriere della Sera, per le persone in isolamento cautelativo: benché l’isolamento abbia una chiara valenza per la tutela della salute, l’impossibilità di lavorare sembra invece essere un limite che travalica la stretta necessità e sconfina nell’irrazionalità. Ma tutto ciò ha un costo, poiché impedisce di produrre, riduce gli emolumenti e trasforma in costo per lo Stato quelle che sarebbero altrimenti ore produttive.
Soluzione cercasi
Come risolvere il problema? Il tema è comunque complesso, poiché tocca diritti e salvaguardie acquisiti, ma ci sarebbero comunque ampi margini di azione sulle quali poter agire. Ad esempio, spiega Cesare Pozzoli dello studio legale Chiello-Pozzoli, “forse si potrebbe valutare la possibilità di fare lavorare in smart working gli asintomatici quando c’è il consenso del lavoratore“.
Quello che emerge è una sorta di glitch normativo che divide i sani dai non-sani, senza considerare il particolare status intermedio di “pericolosi” o “asintomatici” che nel mezzo di una pandemia potrebbero causare un pericolo collettivo senza tuttavia determinare una indisponibilità personale. Chiedere ad un asintomatico di lavorare (in remoto), insomma, non è certo qualcosa che possa ledere alcuna tutela, né tenere occupati i dipendenti in isolamento potrebbe pregiudicare alcunché. Lo smart working, anche in tal senso, si rivela come un’opportunità che, per essere colta, deve anzitutto essere metabolizzata tanto a livello culturale, quanto a livello normativo.
Lo smart working è una via di mezzo che per sua natura può rispondere a molte vie di mezzo, ma serve un orientamento legislativo per quella “terra di nessuno” che sta a metà tra le categorie sulle quali era formattata la realtà giuslavorista pre-Covid.
Molto si può fare in tal senso: individuare il problema, del resto, è il primo passo per poterlo risolvere.