L’Italia occupa stabilmente gli ultimi posti, fra i grandi paesi della Terra, nella corsa allo sviluppo della tecnologia. Soprattutto informatica. Quando si cerca di capire da cosa derivi una tale arretratezza vengono fuori cause sociali (pirateria), culturali (predilezione per le scienze umanistiche) o economiche (mancanza di investitori).
Per una volta vorrei analizzare, invece, non le cause ma le responsabilità. Vorrei esporre ciò che è capitato a me, in una situazione in cui era possibile creare un (piccolo) terreno di sviluppo in un settore molto importante come la tecnologia, per raccontare dall’interno una storia di ordinaria burocrazia.
Due anni fa, come socio di una piccola struttura di formazione professionale legata all’informatica, con la mia società ho partecipato alla costituzione di un consorzio misto pubblico-privato, con più di 250mila euro di capitale, che avrebbe dovuto avere come finalità lo sviluppo di un centro di “Alta Formazione” in una zona dell’Abruzzo interno. Dopo un avvio con tanto di titoli sui giornali locali e foto delle cariche istituzionali nei servizi, c’è stata una riunione fra i consorziati, a cui ho partecipato anch’io, nella quale sarebbero state decise le linee programmatiche per la realizzazione degli obiettivi.
In quella occasione ho cercato di proporre corsi per la formazione di tecnici esperti in comunicazioni wireless pensando già alle possibilità offerte dal WiMax (di cui si cominciava a parlare all’epoca) partendo però dal WiFi, soprattutto perché avrebbero dovuto operare in un territorio montuoso. L’idea piacque e ci lasciammo con l’intenzione che, sbrigate le pratiche burocratiche, ci saremmo rivisti per definire meglio il da farsi.
Ero eccitato all’idea di poter fare finalmente qualcosa per lo sviluppo della mia zona avendo mezzi economici (capitale pubblico e privato, in piccola quota anche di tasca mia), sociali (cariche istituzionali) e culturali (con me c’erano altri imprenditori del settore informatico) con cui poter operare.
Troppo bello per essere vero. Dopo l’immobilismo iniziale la situazione è peggiorata: un cambio di poltrone ai vertici politici della zona ha riavviato tutti i meccanismi burocratici per arrivare fino alla situazione attuale in cui, dopo circa due anni, non si è mosso NULLA.
L’unica soluzione che si prospetta ora è quella di cacciare i privati dal consorzio per poter accedere ai finanziamenti pubblici (che non possono essere erogati ad enti misti) senza neanche uno straccio di progetto operativo.
Dall’interno non ho potuto far nulla per evitare che la situazione arrivasse a questo punto (la mia quota è troppo piccola) ma almeno vorrei che ciò fosse di lezione ad altri.
Scrivo ora, visto che il consorzio è ancora aperto, perché all’ultima riunione a cui ho partecipato, un paio di mesi fa, non hanno fatto seguito soluzioni concrete. Non voglio essere complice o connivente di comportamenti che fanno male alla società in cui voglio vivere e lavorare. Pubblicare questo a bocce ferme sarebbe facile e, forse, anche comodo.
Al di là delle motivazioni personali che mi hanno spinto a scrivere queste righe, vorrei puntualizzare il fatto che se anche riuscissimo a rimuovere le cause principali della carenza di sviluppo, non potremmo far nulla per la mancanza di volontà di sviluppo.
Marco Di Gennaro
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