Alcuni li lasciano accanto ai tradizionali “cassonetti” di città, come rifiuti qualsiasi. Altri li stipano in cantina, tra una ragnatela ed una cornice della nonna, salvo magari scoprirli anni dopo durante i traslochi o le pulizie di primavera. Altri ancora, più “socialmente responsabili”, scelgono di donarli a scuole ed associazioni di volontariato, perché possano essere riusati diversamente. Ma sono molti, moltissimi, quelli che semplicemente non sanno cosa farne. Stiamo parlando dei Rifiuti derivanti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche ( RAEE ), una forma straordinariamente raffinata – e relativamente poco conosciuta – di immondizia contemporanea, prodotta a ritmi sempre più accelerati dalla sostituzione di elettrodomestici e gadget tecnologici.
Ai RAEE appartengono oggetti di molti tipi diversi, dai televisori ai frigoriferi, dagli asciugacapelli alle lavatrici, e poi giù giù fino a cellulari, computer e aggeggini di ultima generazione. Di essi sappiamo molte cose: che sono potenzialmente molto pericolosi per l’uomo e l’ambiente – la maggior parte dei RAEE non sono biodegradabili e contengono sostanze nocive per aria e acqua; che vengono prodotti in quantità enormi in ogni parte del mondo – secondo stime ONU, riprese da Greenpeace , tra 20 e 50 milioni di tonnellate ogni anno , con tassi di crescita del 10- 15% annuo; che molti dei RAEE prodotti nel “primo mondo” finiscono in discariche abusive di paesi lontani. Sappiamo di meno invece, sui modi con cui i “rifiuti hi-tech” possono essere recuperati e magari reimpiegati, riducendo sensibilmente l’impatto ecologico della loro rottamazione.
La soluzione, suggeriscono gli esperti, è ancora una volta legata al riciclaggio. Già, ma come si fa a riciclare correttamente i RAEE ? Qual è il ciclo di recupero cui vanno soggetti, e com’è possibile ridurne l’impatto sull’ambiente? Per rispondere a queste domande, abbiamo provato a “seguire” passo passo un computer portatile appena dismesso, ricostruendo le tappe del suo ultimo (ultimo?) viaggio. Vediamo cosa ne è venuto fuori.
Prima tappa
Il nostro racconto comincia su un ampio piazzale sterrato, all’immediata periferia di una grande città dell’Italia settentrionale. L’odore nell’aria è piuttosto acre, e dai due accessi carrabili si vedono sciamare in continuazione grandi camion bianchi, che scaricano i loro ribaltabili di rifiuti in angoli predefiniti e ripartono veloci.
Nei prefabbricati, proprio al centro dello spiazzo, gli addetti dello stabilimento prendono nota delle consegne e danno ad alta voce istruzioni alle ruspe. Davanti all’ingresso principale, un pannello in plastica ultraresistente avverte i visitatori che quella che hanno davanti è una “Stazione Ecologica Attrezzata” (SEA), e specifica in dettaglio la varietà di rifiuti quivi conferibili.
È da qui, da una delle 1600 SEA predisposte dai comuni italiani, che ha inizio il viaggio del nostro computer dismesso. È arrivato qui con uno dei camion del servizio di nettezza urbana comunale, che lo hanno raccolto accanto ai tradizionali contenitori urbani, o più probabilmente è stato portato qui direttamente dal suo vecchio proprietario. Quando è arrivato presso la SEA, il cittadino ha consegnato il laptop direttamente nelle mani degli addetti, i quali gli hanno rilasciato una ricevuta e hanno provveduto a sistemarlo in un grande “cassone” insieme agli altri prodotti assimilabili (cellulari, fotocamere, desktop).
Inutile appellarsi alla legge
In teoria, accanto all’opzione di consegna presso la SEA il consumatore ne avrebbe anche un’altra, legata alla restituzione del vecchio computer al distributore (negozio specializzato, grande magazzino od altro) che gli vende la nuova macchina. Solo che questa seconda modalità, seppur formalmente prevista dalla legge (D.Lgs. 151/2005) che regola lo smaltimento RAEE , non è materialmente agibile per ragioni di conflitto normativo: il negoziante che conservasse in magazzino (anche per un solo minuto) il computer appena ritirato sarebbe perseguibile penalmente per violazione di un’altra e confliggente Legge, il c.d. “Testo Unico Ambientale”. Quello dell’impossibilità di effettuare il cosiddetto “scambio uno-contro-uno” è uno dei nodi più decisivi del ciclo di smaltimento dei rifiuti hitech.
“Se avessi una bacchetta magica” spiega Danilo Bonato, Direttore Generale di Consorzio Re.Media , tra i massimi esperti italiani in materia di riciclo RAEE, “la impiegherei per risolvere immediatamente il problema del conferimento “uno-contro-uno” verso i distributori. L’impossibilità di consegnare i vecchi apparecchi ai negozianti costituisce infatti un collo di bottiglia pesante rispetto al ciclo di recupero, e oltretutto porta spesso gli utenti a disfarsi delle macchine in modo non ortodosso”.
La Stazione Ecologica comunale è l’unica scelta effettivamente praticabile per il cittadino . Dopo essere stato sistemato nel “cassone” insieme con gli altri RAEE a lui assimilabili, il computer viene lasciato a giacere per un po’, in attesa che il contenitore si riempia e possa cominciare il suo viaggio verso il processo di smaltimento vero e proprio. Se guardiamo le stime ufficiali sui volumi di RAEE prodotti nel nostro paese, saremmo portati a pensare che il periodo di giacenza presso la SEA debba durare poco o pochissimo: nell’ultimo Rapporto dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e del Territorio (APAT) si legge infatti che nel 2007 sono state prodotte in Italia circa 800.000 tonnellate di RAEE – delle quali circa un terzo costituite da gadget di alta tecnologia come computer, cellulari, fotocamere e videocamere. Nella realtà, però, i contenitori di SEA sono piuttosto lenti a riempirsi, perché di RAEE hitech ne arrivano in discarica molto poche: i dati nazionali mostrano infatti che il “tasso di ritorno” per questa tipologia di oggetti si arresta ad un modesto 10-15%, con oltre ottanta apparecchi su cento smaltiti impropriamente o confinati nelle cantine. Seconda tappa
Sono passati tra i quindici ed i venticinque giorni dall’iniziale conferimento del nostro laptop, ed il contenitore che lo alloggia si è finalmente riempito: gli addetti comunali segnalano l’evento al Centro di Coordinamento RAEE ed un camion provvede al ritiro immediato del “cassone”, ed al suo trasferimento verso il sito di lavorazione vero e proprio.
Siamo ad uno snodo cruciale nel viaggio del computer: con l’uscita dalla SEA, le apparecchiature escono dal controllo dei Servizi di nettezza urbana comunali e passano nelle mani di un nuovo (e fondamentale) personaggio della storia: i Consorzi di smaltimento. I Consorzi sono associazioni senza fini di lucro, formate dai produttori di tecnologia per ottemperare alle responsabilità di gestione del recupero e riciclo delle RAEE, che il già citato D.Lgs. 151/ 2005 pone in capo proprio ai produttori (c.d. “principio di responsabilità dei produttori”). Posti di fronte a questi obblighi, i 14 Consorzi del nostro paese hanno progressivamente sviluppato competenze organizzative, logistiche e legali precipue, ed oggi si presentano come i veri fulcri del ciclo di riciclaggio: sono loro ad avere la responsabilità civile e penale dell’intero procedimento , sono loro a coordinare l’azione dei vari attori coinvolti nel processo, sono loro (almeno in prima battuta) a sostenere i costi associati alle diverse attività di smaltimento dei rifiuti hi-tech.
Già, i costi. Se ne affrontano di non piccoli, per recuperare le RAEE. Per riciclare una tonnellata di computer come quello che stiamo “seguendo”, ad esempio, il singolo Consorzio spende mediamente 200 euro. Ma in realtà, spiega ancora Danilo Bonato di Re.Media, i costi sono molto diversi a seconda del tipo di RAEE da riciclare: “Mentre le spese legate allo stoccaggio e trasporto sono simili in tutti i casi, i costi di elaborazione variano considerevolmente in ragione di due indici: la quantità di sostanze nocive da smaltire nell’oggetto e la percentuale di materiale effettivamente recuperabile per riuso futuro”.
È questa la ragione per cui il riciclo di oggetti come computer, videocamere e (soprattutto) cellulari, che sono ricchi di schede elettroniche e metalli passibili di riuso, è molto meno costoso di quello dei televisori e dei frigoriferi , al cui interno sono presenti percentuali maggiori di sostanze pericolose.
Come detto sono i Consorzi, attraverso contratti ed accordi commerciali con gli altri attori della filiera, a farsi carico in prima battuta dei costi associati all’intero ciclo: sono loro a pagare il comune che ha “ospitato” le RAEE presso la SEA; sono loro a pagare i camionisti che effettuano il trasporto verso lo stabilimento; sono loro a pagare lo stabilimento che si occupa della lavorazione vera e propria. Dopodiché, però, il costo viene “scaricato” sull’utente finale : il sopra citato D.Lgs. 151/2005 consente ai produttori di applicare una piccola maggiorazione di prezzo sull’acquisto di apparecchiature RAEE nuove (il cosiddetto “ecocontributo”) come contropartita per il lavoro di smaltimento svolto dai produttori sugli oggetti vecchi.
Terza tappa
Il nostro vecchio laptop è arrivato allo stabilimento di lavorazione. A bordo del camion, in realtà, è rimasto soltanto qualche ora: su indicazione del Centro di Coordinamento RAEE, il container è stato indirizzato verso lo stabilimento di smaltimento più vicino alla SEA, in modo da abbattere i costi economici e quelli ambientali.
Nel nostro paese, le aziende autorizzate alla lavorazione delle RAEE sono complessivamente oltre 200, distribuite su tutto il territorio e censite da un apposito Registro Ministeriale. “Tra queste 200 organizzazioni”, spiega Bonato, “vi sono però realtà molto diverse tra loro. In alcuni casi si tratta di piccolissimi stabilimenti, a bassa intensità di tecnologia ed in tutto e per tutto simili a rottamatori tradizionali. Accanto a queste, però, abbiamo anche 20-30 aziende di altissima qualità, generalmente specializzate nel trattamento di tipologie di RAEE specifiche, che offrono standard tecnologici ed organizzativi di livello internazionale”.
È in uno di questi siti “di eccellenza” che il nostro laptop è stato portato. Dopo essere stato scaricato dal contenitore, viene portato all’interno dello stabilimento, dove ha luogo l’elaborazione vera e propria.
Per prima cosa, alcuni addetti specializzati, che indossano particolari indumenti protettivi, provvedono a “mettere in riserva” l’apparecchio, attraverso l’asportazione delle componenti pericolose eventualmente presenti al suo interno. Inoltre, sempre durante questa fase, gli operatori smontano e separano tra loro le varie componenti fisiche della macchina, indirizzando verso contenitori differenti lo chassis in plastica, il vetro e le componenti elettroniche presenti.
A questo punto, i materiali sono pronti per la lavorazione: dal contenitore vengono riversati su un nastro trasportatore, e da qui diretti all’interno di una grande macina meccanica che funge da “mulino per le RAEE”. Pochissimi secondi, una punta di rumore e voilà: il computer è ridotto ad un ammasso di particelle piccolissime. Adesso il processo di trasformazione è pressoché completato, e manca solo la “cernita” finale: la “polvere” di computer ricavata dalla macinatura viene prelevata, sistemata su un altro nastro e sottoposta- attraverso specifiche tecnologie meccaniche e chimiche- ad un’analisi in grado di separare le micro- particelle di plastica, vetro e metalli. Il gioco è fatto.
“Ma la cosa più significativa” chiosa il Direttore Generale di Consorzio Re.Media “è che a valle della lavorazione solo il 15- 20% del materiale prodotto viene inviato ai siti di smaltimento veri e propri. Tutto il resto rientra nel ciclo produttivo e, anzi, ha in molti casi un valore di mercato non irrilevante”. Ed arriviamo così all’ultima tappa del viaggio. Ormai il nostro vecchio portatile non esiste più, e i suoi “resti” riposano in grandi sacchi di plastica.
Non a tutti i contenitori, però, è riservata la stessa sorte: quelli che alloggiano residui inutilizzabili- sono circa un quinto del totale- vengono affidati a ditte terze e smaltiti in modo definitivo. Tutti gli altri, invece, contengono materiali (schede elettriche, metalli, plastica) recuperati durante l’elaborazione, e sono per questo passibili di riuso in nuovi cicli industriali.
A questi residui “fortunati” (le cosiddette “materie prime seconde”) tocca quindi in sorte di essere rivenduti a intermediari specializzati, i quali a loro volta li smistano verso settori industriali diversi: i materiali plastici vanno così ad aziende del ramo plastico, il vetro a organizzazioni del settore ceramico od a produttori di IT, i metalli nobili a produttori di cellulari od affini.
Si chiude così il processo di riciclaggio, e con esso il viaggio del nostro vecchio laptop. Diversamente da quanto pensavamo, esso non è stato bruciato- se non per una parte molto piccola- e, se guardiamo bene, ne possiamo anche vedere dei pezzetti. In un vetro, una mattonella di ceramica o persino in un nuovo computer.
a cura di Giovanni Arata