È bene chiarirlo: non è una questione di costi. L’ha ribadito Renato Soru , oggi di nuovo presidente e CEO di Tiscali, che intervenuto all’annuale Forum delle Telecomunicazioni ha voluto mettere tutto nero su bianco: l’Italia, ha chiesto alla platea, può permettersi di non costruire la sua rete in fibra adesso? Chiarito questo punto, che probabilmente è più politico che industriale e che condizionerà le scelte in materia di strategia complessiva con cui affrontare il comparto tecnologico, le soluzioni si troveranno: e dall’altra parte c’era Telecom ad ascoltare , che un primo passo in questa direzione l’ha già fatto.
Procediamo con ordine: tecnologicamente il consenso tra le parti è stato trovato, ormai tutti sembrano convergere verso l’ipotesi della rete in fibra che arrivi fino alle abitazioni (FTTH) e che sfrutti un approccio P2P per garantire maggiore longevità all’investimento. Per metterla in piedi nelle principali città italiane (ovvero una decina secondo il Rapporto Caio, qualcuna in più secondo altre stime) ci vorranno tra i 10 e i 15 miliardi di euro . Più complessa, invece, la gestione della transizione dal rame alla fibra: ed è qui che potrebbe entrare in gioco la questione politica, visto che l’ on. Mario Valducci (a capo della Commissione Trasporti e Telecomunicazioni della Camera) sembra quasi anticipare la possibilità di uno switch-off netto del rame in favore della fotonica. Ma è un’idea che non pare praticabile.
Lo ha spiegato il commissario Agcom Nicola D’Angelo : non stiamo parlando di televisione, e non tutte le regioni italiane sono piazzate allo stesso modo per quanto attiene l’infrastruttura esistente. Senza contare il problema delle cosiddette “zone bianche”, quelle che in termini tecnici si definiscono a “market failure”: lì dove le telco non investiranno perché non vedono convenienza nel farlo occorrerà trovare un meccanismo differente per la cablatura. Quello che c’è oggi sul territorio è la rete in rame di Telecom (oltre ovviamente all’altra infrastruttura passiva che è stata costruita a macchia di leopardo in questi anni), e da quella occorrerà partire per costruire una nuova rete in fibra , probabilmente – questo par di capire – affidata a una società che si occupi solo della sua gestione e della sua fornitura a chiunque ne faccia richiesta.
Ciò, naturalmente, stride con gli interessi economici di Telecom: che ogni anno investe 700 milioni nella manutenzione e nel ripristino dell’attuale doppino, e che valuta in circa 4 miliardi il valore nominale dell’infrastruttura esistente e in 20 miliardi il suo valore di mercato ( total replacement ). Nel botta e risposta tra Oscar Cicchetti, direttore technology e operations dell’incumbent, e Renato Soru è affiorato un possibile compromesso: Tiscali, che è entrata a far parte della nuova alleanza formata da Fastweb, Vodafone e Wind per la NGN, pare disposta a pagare per compensare Telecom dell’utilizzo dei suoi cavi e cavidotti . Ma è nel braccio di ferro tra chi come Fibra per l’Italia vuole accelerare per la competizione sui servizi, e chi come l’incumbent è tutto sommato soddisfatto di competere sull’infrastruttura, che si arena il progetto per la NGN in Italia.
Sullo sfondo ci sono le questioni internazionali: come dimostra il recente caso del digitale terrestre , l’Europa non vede di buon occhio gli aiuti di stato a un settore, anche se strategico, come la rete di telecomunicazioni. D’altra parte, ha annunciato Beatrice Covassi del gabinetto del commissario alle telecomunicazioni continentale, anticipando la Digital Agenda in uscita il prossimo mese, i piani della UE per la banda larga nel Vecchio Continente sono ambiziosi: e prevedono sia un investimento importante per l’infrastruttura ( 100 per cento di copertura a 30Mbps entro il 2020 ), sia un lavoro sull’alfabetizzazione digitale al fine di sostenere la domanda. Tutto questo unito a un riordino dello spettro radio, a una razionalizzazione e una gestione più efficiente dei fondi infrastrutturali versati agli stati, alla stesura di un piano che illustri gli elementi comuni su cui fondare la programmazione nazionale dei membri UE.
Ma se negli USA AT&T riesce a sostenere 55 miliardi di dollari di investimenti in tre anni sulla rete , se in Giappone si riesce a realizzare l’open access e a mantenere l’incumbent NTT sotto il 40 per cento dei contratti broadband con un costo della connettività (finale e di unbundling) contenuto, l’Italia si culla ancora nell’illusione che l’enorme penetrazione del mobile possa in qualche modo fare da salvagente in un contesto in cui il digital divide sulle reti fisse è all’ordine del giorno (il 12 per cento delle linee fisse ha difficoltà ad accedere al broadband). L’amnesia, che impedisce di chiarire che da qualche parte ci dovranno pur essere autostrade dell’informazione in cui far confluire i mille rivoli provenienti da smartphone e laptop in giro per l’Italia, comporta la miopia che impedisce di considerare i tempi necessari alla effettiva realizzazione della cablatura stessa.
Il nuovo capitolo dell’interminabile saga della NGN in Italia ora tira in ballo le Regioni: sono partiti alcuni programmi di sviluppo, quello della Lombardia e del Piemonte, uno della Provincia di Trento, e ovviamente c’è Infratel. A questi ora si guarda come strumenti adatti sia a colmare il digital divide, sia come strumenti di efficientamento sul territorio per l’utilizzo dei fondi europei: in particolare è la Lombardia , che deve anche ospitare l’Expo nel 2015, a costituire al momento il principale polo d’attrazione per tentare una conciliazione tra gli stakeholder (principalmente gli operatori), ma anche in questo caso non sembra di scorgere un cambio di passo decisivo che possa smuovere la situazione nazionale e non solo quella locale che ha pure il fiato sul collo dell’evento internazionale imminente.
Sta di fatto che la rete in rame ha ormai raggiunto la saturazione , e come era prevedibile il mercato va ora incontro alla fisiologica contrazione : le tariffe si abbassano, non ci sono più i ritmi di crescita degli anni ’90, i margini calano. Una boccata d’ossigeno, ironicamente, alle telco potrebbe garantirla proprio il passaggio alla fibra: tra riduzione dei costi di manutenzione, risparmio sui costi di alimentazione, diminuzione del numero di apparati e di centrali, aumento dei servizi a valore aggiunto erogabili.
Qualcuno ha fatto notare che le cifre in ballo per il 50 per cento di copertura, quei 10-15 miliardi di cui si accennava prima, non sono altro che l’equivalente del deficit sanitario di una regione come il Lazio: vuol dire probabilmente che anche in Italia potrebbero essere messi a frutto meglio i fondi infrastrutturali europei , e reperire il capitale rimanente tramite il finanziamento privato, senza dover ricorrere ad astruse legiferazioni e deroghe e ottenendo un ritorno economico adeguato per giustificare l’investimento delle telco (e delle banche). E senza perdersi dietro al coinvolgimento di nuovi soggetti, le regioni, in una trattativa che è già complicata: steso un piano nazionale, probabilmente, il resto verrà da sé.
Luca Annunziata