Musica, podcast, film, serie tv, applicazioni, libri e ora anche lezioni, iTunes U apre all’Italia. In realtà il servizio di Apple dedicato alla veicolazione di materiale didattico è fruibile nel nostro paese da tempo, adesso però la casa della mela ha deciso di cominciare ad investire sulla produzione di contenuti educational anche da noi.
Al momento 800 content provider (leggi: università ed istituti riconosciuti come “facenti funzioni educative”) rimpinzano iTunes U con podcast video, audio e documenti scaricabili. Tutto gratis. In Italia ci sono almeno 30 università in fila per andare online (significa che hanno avviato la pratica o che sono state riconosciute e devono solo cominciare a mettere il materiale in linea) e Apple ha deciso di tenere a Roma un evento, aperto ai più importanti istituti che si sono interessati alla questione. Lo scopo: evengelizzare il verbo del nuovo servizio, spiegare quali siano le possibilità, raccontare case histories di successo e dare qualche consiglio per portare le proprie lezioni in rete con efficacia e risparmio (si scopre che le università degli altri paesi hanno gli stessi problemi delle nostre per quanto riguarda risorse umane ed economiche, nonché nell’ambito “volontà da parte di chi tira le fila”).
“Dal ’78 all’84 il computer, nel 2003 la musica, nel 2008 la telefonia mobile, dal 2010 al 2012 l’editoria e dal 2011 al 2015 la scuola”: così recita una delle slide di apertura dell’evento, con cui Apple comunica senza mezzi termini che punterà seriamente sul settore educational , almeno quanto in passato ha puntato sul resto.
In verità si potrebbe dire che ci ha sempre puntato, sostengono dall’azienda citando l’impegno in ACOT e il continuo rapporto di scambio che Cupertino ha con gli editori per migliorare gli strumenti di apprendimento. La realtà, però, è che un servizio così apertamente dedicato alla veicolazione di contenuti didattici e un’apertura simile a tutti gli istituti che vogliano prendervi parte non si era mai visto. La stessa azienda lo definisce “Applès best kept secret”, frase ad effetto ma dal dubbio significato (se è una cosa buona, perché dovrebbe tenerla segreta?).
Con iTunes U la società di Jobs tenta di mettere un altro piede nel mercato dei contenuti , non producendoli in prima persona ma candidandosi ad aggregatore numero uno, in linea con quanto fatto fino ad ora. Stavolta però, trattandosi di contenuti altamente professionali, dove andarli a prendere se non nelle università? Nasce così la nuova divisione, per permettere un doppio movimento di materiale didattico: verso l’interno e verso l’esterno. Quello interno è consentito dal lato private di iTunes U (contenuti accessibili dietro l’immissione di nome utente e password), quello esterno dal lato public (contenuti liberi e per tutti). Il primo tipo può diventare monetizzabile (e-learning?), il secondo è quello più in linea con le filosofie open della Rete e dallo scopo pubblicitario: agli istituti la scelta di quale modello applicare per ogni elemento caricato.
Ogni ente infatti mette online le lezioni che ritiene più opportuno veicolare nella quantità che crede. In nessun caso Apple offre lo spazio (una voce importante nel momento in cui si vogliono uploadare ore di lezioni magari in video), il servizio prevede unicamente l’indicizzazione e la pagina all’interno di iTunes. Nei confronti degli utenti, insomma, la Mela si pone come garante della qualità e della bontà degli istituti coinvolti. A differenza dei podcast, infatti, chi vorrà prendere parte dovrà dimostrare le proprie credenziali.
Quali siano i numeri che si possono generare lo spiega Clive Mulholland, vicerettore dell’ università di Glamoran nel Galles, per l’occasione uomo immagine Apple nell’illustrare come il suo istituto di provincia abbia beneficiato dall’aver investito tempo e risorse in iTunes U. 340.000 download in 6 mesi e 630.000 dopo un anno. Un ritorno di immagine che, sostiene Mulholland, “ci sarebbe costato 4,2 milioni di sterline se l’avessimo pianificato”.
La cifra è discutibile, e sembra più un espediente per catturare l’attenzione, tuttavia è indubbio che numeri simili per un’università di provincia (beneficiata però dall’avere già tutti i corsi in lingua inglese) siano un buon investimento in termini di immagine e una buona carta per la carriera dei singoli docenti.
Gabriele Niola