Jobs Act e controlli tecnologici, cosa cambia veramente?

Jobs Act e controlli tecnologici, cosa cambia veramente?

di Avv. V. Frediani - Gazzetta Ufficiale alla mano, uno scenario di come il tecnocontrollo aggiornato al Jobs Act influiranno sulla vita del lavoratore e dell'azienda
di Avv. V. Frediani - Gazzetta Ufficiale alla mano, uno scenario di come il tecnocontrollo aggiornato al Jobs Act influiranno sulla vita del lavoratore e dell'azienda

Roma – Dopo l’ approvazione del Consiglio dei Ministri lo scorso 4 Settembre, sono stati finalmente pubblicati in Gazzetta Ufficiale, i decreti attuativi del Jobs Act. Tra i punti più dibattuti, sicuramente quello relativo alle misure in materia di controllo a distanza dei lavoratori.

Nel Decreto Legislativo del 14 settembre 2015, n.151, recante ” Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità “, all’articolo 23, a modifica dell’art. 4 della legge 20 maggio 1970, n.300, si legge: ” Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo gli impianti e gli strumenti di cui al periodo precedente possono essere installati previa autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più Direzioni territoriali del lavoro, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali “.

Segue il passaggio al centro della querelle , in cui si precisa che tale disposizione ” non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze “. Il testo continua disponendo che ” le informazioni raccolte ai sensi del primo e del secondo comma sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 “.

Anzitutto, il primo comma vede una introduzione che fino ad oggi era stata oggetto di valutazione esclusivamente nelle aule di tribunale: la possibilità di impiego di impianti audiovisivi e di altri strumenti con finalità di tutela del patrimonio aziendale . L’aspetto non è di poco conto. Difatti, negli anni, la giurisprudenza si è fatta altalenante sul ritenere che l’adozione di soluzioni di controllo indiretto a distanza dei lavoratori potesse avvenire per motivi funzionali alla tutela del patrimonio aziendale solo in caso di avvenute violazioni o accertati rischi per il patrimonio stesso.
Dalle modalità di formulazione dell’attuale comma, l’elemento di tutela del patrimonio aziendale sembra essere valutabile in modo totalmente discrezionale da parte del datore di lavoro.
Secondariamente, occorre osservare che non andando il legislatore ad inserire nel secondo comma gli impianti audiovisivi, dobbiamo ritenerli assolutamente esclusi dal poter essere adottati fuori dalle prescrizioni di cui al primo comma, ovvero accordo collettivo o ricorso alla direzione territoriale del lavoro. Per la videosorveglianza in sostanza non cambia assolutamente niente a seguito della modifica del legislatore.

Ci sono invece strumenti fino ad oggi penalizzati nell’adozione, proprio in considerazione dei limiti di cui all’articolo 4, per cui il panorama normativo cambia integralmente. Si pensi a sistemi di geolocalizzazione piuttosto che alla biometria (fatti salvi i bilanciamenti di interessi del Garante).
Torniamo ad analizzare il secondo comma, che concede libertà di adozione degli strumenti da parte del datore di lavoro se utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa . Il comma non contiene alcun riferimento alla necessarietà dello strumento per rendere la prestazione lavorativa: da qui si può aprire un mondo interpretativo non indifferente. È la parte datoriale che decide come il lavoro deve essere espletato, gestito, organizzato. Ed è sempre il datore di lavoro che individua le modalità con le quali il lavoratore deve rendere la prestazione lavorativa: da questo deriva una apparente libertà di inserire strumenti quali GPS, biometria e, come vedremo tra poco, tutti gli strumenti di natura tecnologica dai quali possa derivare un controllo a distanza, atti a rendere la prestazione lavorativa (magari non indispensabili, ma funzionali al renderla semplificando od ottimizzando aspetti di organizzazione e produzione).

Certamente un sospiro di sollievo possono tirarlo gli ICT manager che, fino a oggi, si sono posti problemi nell’adozione di soluzioni atte a monitorare la navigazione degli utenti con finalità di prevenzione di attacchi informatici, piuttosto che di furto tempo-uomo. Se, fino a ieri, l’inserimento di tale tipologia di controlli nel Regolamento informatico (in linea agli auspici dell’Autorità Garante per la Protezione dei dati personali risalenti al 2007) poteva essere subordinata ad uno step obbligato dinnanzi alla rappresentanza sindacale, oggi non sembra dover dipendere da questo passaggio. L’utilizzo di smartphone, dai quali possa derivare un controllo a distanza tramite applicazione o MDM che unitamente ad altre funzionalità comportino la geolocalizzazione del dipendente, non sarà sottoposta ad alcun vincolo.

Rimane escluso da quest’ipotesi tutto il mondo del BYOD . La promiscuità delle finalità di utilizzo del dispositivo, ovvero per scopi di natura personale e professionale, fa fuoriuscire dal dettato normativo il suo utilizzo per rendere prestazioni professionali, essendo impiegato per raggiungere anche finalità di natura non lavorativa.

Anche il prosieguo del comma, dove si cita la non applicazione del primo comma all’adozione di strumenti di registrazione degli accessi delle presenze, può comportare cambiamenti notevoli con riferimento all’utilizzo del badge. Considerando in senso lato l’accesso del lavoratore, e non fornendo alcuna precisazione il legislatore, possiamo ritenere che qualsiasi accesso alle aree fumatori, piuttosto che agli spogliatoi, alla mensa, costituisca pur sempre un dato sottoponibile ad un controllo da parte del datore di lavoro. Nessuna precisazione si trae dal comma, o dagli atti preliminari, in merito all’ interpretazione del concetto di accesso , traducibile non solo come accesso ai locali lavorativi nel senso perimetrale, ma come punti di accesso che, all’interno del perimetro aziendale, potrebbero caratterizzare lo spostamento in aree diversificate. Sfido ad interpretare in maniera diversa questo comma blando e stringato (fin troppo) rispetto alla moltitudine di casistiche che potrebbe andare a disciplinare.

Unico limite indicato dal legislatore, o meglio ricordato dal legislatore al terzo comma, il rispetto delle prescrizioni di informazione con un richiamo al decreto legislativo 196 del 2003, il cosiddetto Codice Privacy , secondo il quale gli elementi che il datore di lavoro andrà a raccogliere, nel rispetto del primo e del secondo comma dell’articolo 4, potranno essere utilizzabili per tutti i fini connessi al rapporto lavorativo. Questo a condizione che, al lavoratore, venga fornita informazione sulle modalità di uso degli strumenti e dei consequenziali controlli. Informazione che, congruamente alla ratio del Codice Privacy, dovrà essere resa preventivamente al trattamento dei dati del dipendente che potrà essere realizzato.

Superata quindi la spaccatura tra i sostenitori o meno della riforma dell’articolo 4, oggi ci troviamo di fronte a un testo che, con il secondo comma, pone enormi interrogativi. Le opportunità interpretative, e gli scenari applicativi che potrà andare a disciplinare sono talmente ampi da generare probabilmente, ancora una volta, posizioni giurisprudenziali non sempre coincidenti.

A questo punto è il momento delle verifiche aziendali : analizzare gli strumenti che stanno utilizzando, quelli sui quali vorranno investire e le modalità per effettuare i controlli. Prioritario sarà mappare lo stato di fatto, accertare la congruità normativa e procedere a “regolarizzare” e conformare il tutto alla nuova versione dell’art. 4. Tutti tenendo ben presente che le imprese dovranno essere consce che ogni controllo dovrà comunque rispettare le finalità di impiego di cui al primo comma, ovvero adottare strumenti esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale . Anche se, francamente, sia il concetto di esigenze organizzative e produttive, che quello relativo alla tutela del patrimonio aziendale, si prestano a poter essere elemento scriminante rispetto alla violazione dell’art. 4, potendosi spesso giustificare in caso di evoluzione tecnologica.
Detto questo, il mondo deve anche andare avanti! Certo, il legislatore poteva farlo andare avanti con qualche precisazione in più…

Avv. Valentina Frediani
Founder Colin & Partners

Link copiato negli appunti

Ti potrebbe interessare

Pubblicato il
25 set 2015
Link copiato negli appunti