Il tema è sempre lo stesso: è possibile far pagare – e come – per i contenuti informativi distribuiti online? La novità è che a parlarne sono stavolta gli editori italiani, il cui silenzio pubblico in proposito era stato fin qui quasi totale. Adesso i newsmaker professionisti prendono posizione, spiegando come la transizione verso i modelli a pagamento sia inevitabile. Ma restando piuttosto evasivi intorno ai modi per realizzarla concretamente.
A lanciare il dibattito è stato Carlo De Benedetti, con una lettera aperta inviata a Il Sole 24 Ore giovedì 21 Maggio. Il principale azionista del gruppo che comprende La Repubblica e L’Espresso ha gettato sul tavolo tutti i nodi principali: la difficoltà di farsi pagare da utenti internet viziati dal modello free, l’esigenza di investire sui contenuti di approfondimento e qualità, le promesse del modello basato sui micro-pagamenti.
“Contenuti a pagamento, d’accordo, ma quale pagamento?” ha scritto De Benedetti: “Su questo nessuno ha ancora la soluzione, ma certamente parte di essa viene dai micropagamenti. Dalla possibilità, cioè, di conferire al produttore di un singolo contenuto di qualità alcuni centesimi di euro, da parte dell’utente basic, o qualcosa di più da parte di quello evoluto”.
Il filo del discorso è stato poi ripreso nei giorni successivi a Bagnaia (Siena) dove si è svolto l’evento finale del progetto “Crescere fra le righe”, organizzato dall’ Osservatorio permanente giovani- editori . Nel corso delle due giornate, che hanno visto la partecipazione di noti giornalisti quali John Elkann ( La Stampa ), Ferruccio De Bortoli ( Il Corriere della Sera ), Giancarlo Cerrutti ( Il Sole 24 Ore ), si è discusso a lungo dei modelli di business da impiegare per rilanciare i giornali ai tempi della rete. Ed anche in questo caso il termine più evocato è stato proprio “micropagamenti”. “La sfida dei micropagamenti è interessante, posto che si riesca a dare all’utente un servizio personalizzato” ha detto ad esempio De Bortoli.
Ma i decisori presenti non si sono nascosti le difficoltà – e le incertezze – poste dalla transizione verso modelli informativi a pagamento. “È difficile calcolare se un giorno il web potrà stare economicamente in piedi da solo” ha detto John Elkann. “L’importante è dare ai propri lettori quello che loro interessa, valorizzarlo al meglio anche con l’aiuto della tecnologia e farsi pagare per questo”.
I ragazzi presenti, però, non sembrano essere dello stesso avviso. Interpellati da Massimo Gramellini, il quale chiedeva loro se sarebbero disposti a pagare l’equivalente di un sms per informarsi online, la maggior parte degli studenti risponde pianamente no grazie . “Perché dovrei pagare una notizia? Se mi interessa è perché in parte la conosco già, dunque pagherei al limite per un approfondimento”, ha detto una delle giovanissime presenti. Mentre un altro, ancor più irriverente, ha incalzato i professionisti presenti chiedendo: “Come possiamo affidarci a persone che vengono pagate e che quindi non possono scontentare chi dà loro lavoro? È meglio – ha argomentato – affidarsi al mondo libero e anarchico di Internet”.
Il riferimento esplicito degli editori italiani resta comunque Rupert Murdoch. Poche settimane fa, il magnate australiano ha affermato l’esigenza di superare l’attuale modello di distribuzione delle informazioni online, imponendo anche in rete il modello a pagamento. E lo stesso New York Times , dopo molti tentennamenti, sembra intenzionato a seguire l’esempio di News Corp sulla via del no-gratis.
Ma quello proposto da Murdoch non è l’unico modello di sviluppo possibile. Il Guardian di Londra, per esempio, ha optato per un modello di business diametralmente opposto , all’interno del quale la distribuzione gratuita dei contenuti editoriali online viene incentivata, ed i profitti vengono dalla raccolta pubblicitaria associata alla loro disseminazione.
Giovanni Arata