La crittografia corre troppo veloce

La crittografia corre troppo veloce

di G. Scorza - E' tutta colpa di Snowden, parola dell'intelligence statunitense. Le stesse autorità che basano il proprio operato sulla presunta antitesi tra diritto alla privacy e diritto alla sicurezza
di G. Scorza - E' tutta colpa di Snowden, parola dell'intelligence statunitense. Le stesse autorità che basano il proprio operato sulla presunta antitesi tra diritto alla privacy e diritto alla sicurezza

È l’ultima di una lunga serie di accuse che l’intelligence statunitense, protagonista di uno dei più grandi scandali – sin qui – di spionaggio globale di massa, ha appena indirizzato a Edward Snowden: aver innescato una furibonda accelerazione nella diffusione della crittografia tra cittadini ed imprese tale da prendere in contropiede le previsioni ed i progetti delle autorità.

A puntare l’indice contro Snowden, il Director of National Intelligence James Clapper, il 25 aprile scorso nel corso di un incontro con i giornalisti. Lo sviluppo e la diffusione della crittografia attuale è arrivato con sette anni di anticipo rispetto alle nostre previsioni, dice, e questo crea delle enormi difficoltà investigative soprattutto nella lotta al terrorismo.
Tradotto dal linguaggio istituzionale nel quale Clapper, in ragione del suo ruolo, è probabilmente costretto a ingessare le sue parole, il messaggio è forte è chiaro: se Snowden non avesse lanciato il suo allarme sulla pesca a strascico di dati personali condotta in mezzo mondo dall’intelligence statunitense, oggi le grandi corporation dell’IT non starebbero ancora investendo così tanto nella crittografia di massa ed i consumatori non sarebbero tanto interessati ad usarla nelle loro comunicazioni quotidiane con l’ovvia conseguenza che il lavoro dell’intelligence sarebbe più facile.

Questo, naturalmente, basandosi sul falso presupposto – che però sembra essere difficile da far comprendere a chi dirige la più potente agenzia di intelligence al mondo – che la sicurezza interna ed internazionale passi, per davvero, ancora nel 2016, per l’ammasso di quantità industriali di dati personali e non per una raccolta mirata e puntuale di dati ed informazioni e, soprattutto, per una loro analisi efficace, condivisa con le agenzie di intelligence del resto del mondo.
E, infatti, a chi gli chiede se non ritenga che lo sviluppo della crittografia e la sua rapida diffusione costituiscano una risorsa importante per la tutela della privacy dei cittadini, Clapper risponde senza alcuna esitazione e con disarmante franchezza: “dal nostro punto di vista non è così”.

Dichiarazioni importanti, quelle del numero uno dell’intelligence statunitense, soprattutto in un momento nel quale l’Europa è chiamata a pronunciarsi sull’affidabilità del nuovo accordo per il trasferimento dei dati negli Stati Uniti d’America e sull’ idoneità del cosiddetto Privacy Shield a trasformare, di nuovo, l’America in un approdo sicuro per i nostri dati personali dopo che la Corte di Giustizia, lo scorso sei ottobre, ha decretato il decadimento dell’ormai celebre Safe Harbour, il precedente accordo che, tuttavia, non ha impedito che proprio la NSA pescasse, a strascico, tonnellate di dati personali in Europa.

Le parole di Clapper, infatti, appaiono confermare l’ovvio, ovvero che serve ben di più di qualche lettera ufficiale o solenne impegno internazionale per modificare la cultura o la subcultura di chi, per decenni, ha ritenuto – ed evidentemente continua a ritenere – che la privacy di centinaia di milioni di cittadini di Paesi diversi è immolabile e sacrificabile sull’altare della sicurezza interna ed internazionale.
Quasi, peraltro – ed ancora una volta il capo delle agenzie di intelligence americane lo conferma con le sue parole – che non esistesse alcuna soluzione per garantire una pacifica convivenza tra due diritti fondamentali come la privacy e la sicurezza senza l’esigenza di continuare a porli in un sistematico rapporto di antitesi ed a proporre ad un’opinione pubblica smarrita e disorientata l’esigenza di scegliere se voler vivere al sicuro o al riparo da sguardi indiscreti.

Ed intanto in Lussemburgo, proprio in queste ore , vengono portati alla sbarra i tre francesi che rivelarono gli accordi segreti tra le multinazionali con il Granducato per aggirare le tasse. Più crittografia, maggior riconoscimento del diritto all’anonimato, forse, avrebbe garantito loro di contribuire – come innegabilmente hanno fatto – a rendere l’Europa migliore, senza dover rischiare, per questo, dieci anni di galera.

Guai a far apparire semplice una partita a scacchi maledettamente complicata, ma occorre disinnescare con un urgenza la diffusa percezione – che è talvolta parte di un’autentica propaganda governativa – per la quale più privacy significhi meno sicurezza e più sicurezza significhi, necessariamente, meno privacy.
Per disporre di un diritto fondamentale, non serve rinunciare ad un altro.

Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it

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Pubblicato il
27 apr 2016
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