Se l’uomo, inteso come maschio, è storicamente la misura di tutte le cose, come possiamo colmare il gap di genere partendo da una quantità di dati già così compromessa? E come dovrebbero essere, questo set, per evitare di interpretare oggetti, prodotti, tecnologie, come “perfette” quando non lo sono affatto per circa il 52% della popolazione?
Questa edizione dell’Internet Festival ha avuto diversi meriti, tra i più notevoli quello di aver preso decisamente e finalmente in mano il tema della parità di genere. Con una formula, #PariTalk, che invitiamo a visitare e rivedere online, anche solo per appuntarsi protagonisti e bibliografie di questo salotto di incontri. Ce n’è per farci altri festival, incontri, advocacy e tanto altro.
A misura d’uomo: la discriminazione dei dati
Ci voleva qualcuno che finalmente sdoganasse il pensiero sulla parità nell’ambito tecnologico: ambiente che come e più di altri, va detta tutta, soffre di un pesante maschilismo. D’altra parte è dura credere nella liberazione dai vincoli di genere, di ogni genere, grazie alla forza dirompente della Rete, dei grandi nodi di senso collettivo che in essa convivono, quando scopri che i microfoni funzionano male con la voce femminile, e il riconoscimento automatico ancora peggio, perché tutto è stato testato sull’organicità e dalla mentalità maschile; quando vieni a sapere che molto spesso un qualunque farmaco diffusissimo, passate le varie fasi di trial viene messo sul mercato senza uno straccio di flag per la peculiarissima fisiologia femminile e così quattro quinti delle reazioni avverse di un farmaco si disperdono perché i medici non sanno bene dove appuntare note – teoricamente preziose – in merito agli effetti sul ciclo mestruale, ad esempio.
Insomma, qui (come già detto a livello super-accademico nel panel sulla Intelligenza Artificiale sempre in questa edizione del Festival di Pisa) dobbiamo cominciare a preoccuparci dei nostri set di dati: quando ne alimenteremo i nostri sistemi, da cose semplici come report statistici a cose sofisticate come programmi di machine learning, a cose che al momento sembrano unicorni arcobaleno come politiche di parità di genere ben finanziate in tutto il Paese da amministrazioni lungimiranti e culturalmente aperte, non finiremo per produrre smart-cloni delle nostre iniquità.
Da questo punto di vista, “A misura d’uomo: la discriminazione dei dati” è un ottimo esempio di relatori ben aggregati per dirci quanto sono importanti i dati… disaggregati.
Dati di qualità, dati profondi come quelli cercati dal Think Tank Period: dati per contare in vista dell’arrivo delle risorse previste dal Recovery Fund per chiedere alle istituzioni locali un impegno concreto a rendere aperti e pubblici i dati necessari a misurare il gap di genere. Almeno misuriamolo, poi si potrà anche pensare ragionevolmente e radicalmente (no, non sono approcci contrapposti) a modificarlo. Dei 72 dati che l’Onu ha indicato per queste analisi, in Italia ne abbiamo 38; per quanto riguarda i dati che gli enti forniscono, sono solo il 52% e di questi solo il 21% può essere considerato ottimo. Isabella Borrelli, che è quanto di meglio offre il panorama attivista, femminista intersezionale con le competenze statistiche per spiegare il tema, ne avrà da fare.
A proposito invece di spiegare, nel libro “Ti spiego il dato”, che uscirà il 13 ottobre, Donata Columbro ha voluto fornire un’aggiornata cassetta degli attrezzi per leggere i dati che i media non sanno leggere oppure, per molte ragioni, non hanno interesse a interpretare correttamente per noi (e qui si apre il doloroso capitolo dei media di cui parleremo a proposito di Unframing, il libro di Antonio Pavolini, in un prossimo articolo).
E al maschilismo vero e proprio chi ha pensato? “Per soli uomini” è l’altro saggio che ha portato in dote racconti, metodo e anche un po’ di giusta indignazione: gli autori Emanuela Grigliè e Guido Romeo hanno sfruttato bene il tempo a loro disposizione, nel collegamento da remoto, per spiegare che esiste un secondo soffitto di vetro, quello per cui le donne hanno il 75 per cento di probabilità in più di soffrire per gli effetti collaterali di un medicinale, il 17 per cento in più di morire in un incidente stradale, ma rappresentano a malapena due notizie su dieci.
Sul perché tutto questo vada al più presto corretto, va proprio precisato? Bisognerebbe proprio essere fuori dal mondo per non capire che il “pregiudizio digitale” ha un costo enorme, incalcolabile per la nostra economia e società in genere. La mancanza di dati che considerino generi e differenze non consente politiche efficaci, aumentando i costi del welfare, sottostima le patologie alzando quelle della sanità. Questi perenni “vizi di forma” concettuali nell’approcciarsi a un mondo di dati, purtroppo orientato a una sola metà della popolazione, sono costanti che mandano in fallimento i nostri sistemi democratici e senza un po’ di femminismo dei dati, concentrandosi sullo smontare un privilegio senza costruirne un altro, o allargare il precedente, non ci sarà PNRR che tenga.