Web – Guerra alle telecamere selvagge e alle webcam invadenti, inchiesta sui siti che raccolgono informazioni sulla navigazione degl utenti, via libera con riserva alle telefonate con spot… Può piacere o no ma una cosa è certa: il lavoro del Garante per la privacy italiano si fa sentire fuori e dentro la rete. La legge che ha portato a questi interventi, la celebre 675/96, pur con mille difetti ha avuto ed ha un suo ruolo, e forse non è un caso che a capo dell’organismo europeo dei garanti della privacy sia finito proprio “il nostro” Stefano Rodotà.
Forse per questa “presenza” non riesco a temere più di tanto le incursioni spavalde di questa o quell’azienda, o istituzione, italiane. Lasciando da un lato gli scenari echelonanti e una sottostante preoccupazione per le attività dei servizi segreti del mondo occidentale, l’impressione è che nella normalità della comunicazione digitale un limite ci sia. Un limite che, se valicato, prima o dopo porta alla “scomunica” o quantomeno ad una reprimenda ufficiale che si conclude con una marcia indietro. Persino nell’era di internet.
Se siamo lontani dal poter abbassare la guardia è perché i pericoli per gli italiani online non vengono tanto da sconsiderate iniziative nostrane, spesso prese in prestito dall’estero e quindi già note nei loro effetti, quanto dalle “nuove tendenze” americane e dalla loro violenta penetrazione in Europa, tanto più in questi anni digitali, in una “tradizione” lunga decenni.
Molti americani sembrano aver scoperto un nuovo concetto di privacy nelle scorse settimane, quando UE e USA hanno finalmente trovato un discutibile e discusso accordo sulla gestione dei dati personali dei cittadini europei quando tali dati, soprattutto in rete, passano ad imprese statunitensi. Un “safe harbor” che, come già scritto , non garantisce granché ma almeno a livello di principio significa qualcosa.
Ed è quel qualcosa che ha scatenato le prime reazioni di organizzazioni e associazioni americane, che, lancia in resta, stanno ora cercando di dimostrare ai propri concittadini che la vaga normativa americana in materia di privacy è tutto meno che una garanzia per l’utente. Hanno capito, e cercano di evangelizzare chi li circonda, che “il nuovo marketing” è lo schiacciasassi e le pietruzze da schiacciare sono proprio i dati personali.
Per noi questa “ribellione” negli USA è la sola speranza che per una volta un problema statunitense non riesca a volare sopra l’Altantico per impiantarsi dalle nostre parti ed affoghi prima dell’approdo sulle nostre coste. Sarebbe in sé un evento dell’era digitale in netta controtendenza (si pensi al cybersquatting sui domini, alla pirateria online e via dicendo). Per gli americani più consapevoli si è invece dinanzi alla necessità di un assalto ad una rocca impenetrabile, il tentativo di acquisizione di una visione più europea, imperfetta ma migliore, della privacy.
Che la rocca sia ben difesa è evidente, basta leggere le dichiarazioni di aziende che sulla rete e sugli equivoci della e-privacy hanno costruito business spesso consistenti. DoubleClick , la più grande e la più citata, ha ipocritamente assunto un comitato di esperti per far valutare i propri sistemi pro-privacy, continuando a sostenere che i dati raccolti in rete non saranno mai associati a quelli, molto personali, rastrellati per anni fuori dalla rete da Abacus Direct, azienda di cui da tempo ha acquisito il controllo. Una dichiarazione improbabile arrivata dopo mesi e mesi di pressioni da parte di mezza America. Ma per rabbrividire ci si può anche limitare ad ascoltare il boss di Plugout.com, quello secondo cui inviare messaggi non richiesti sui telefonini è pratica comune e lo sarà sempre di più (“che ci vuoi fare?”).
Che sia il momento per l’Europa di assumere, per una volta, un ruolo attivo, e sostenere quegli americani che si sono impegnati ad espugnare la più imprendibile e pericolosa fortezza del marketing?