Washington (USA) – “La pirateria e la contraffazione ci affliggono come il terrorismo. Mettono a rischio ogni settore dell’economia americana”. Così la vede Bob Wright, chairman e CEO di NBC Universal intervenuto alla US Chamber of Commerce Conference . Per tutelare il futuro dell’economia USA si invocano leggi restrittive e severi provvedimenti nei confronti di file sharing e della contraffazione.
A sostegno della sua tesi viene sventolato The True Cost of Motion Picture Piracy to the U.S. Economy , uno studio – in parte finanziato da NBC Universal e MPAA e compiuto dall’ Institute for Policy Innovation (IPI) , organizzazione conservatrice non profit – che descrive un effetto domino dovuto alla pirateria, anzi un effetto increspatura . Il sasso della pirateria – cioè – incresperebbe le acque di tutta l’economia USA, non semplicemente quelle dell’industria cinematografica. E la perdita è stimata in 20,5 miliardi di dollari , una cifra ben superiore a quanto fin qui ipotizzato.
L’analisi IPI assume come base il documento L.E.K., The Cost of Movie Piracy , che calcolava per gli studios hollywoodiani una perdita di 6,1 miliardi di dollari. Applica poi dei moltiplicatori comuni al modello matematico utilizzato dal Bureau of Economic Analysis americano. Ed ecco che il sassolino lanciato nell’acqua riesce a sollevare onde anomale:
– Venti miliardi e mezzo di dollari le perdite annuali per l’economia statunitense, 5,5 in meno per l’industria cinematografica
– 141.030 posti di lavoro non creati, di cui quarantamila “nuovi impiegati mancati” nell’ambito dell’industria cinematografica
– 837 milioni di dollari di tasse in meno per gli Stati Uniti.
Lo schema concettuale della stima dei danni
La pirateria riduce le entrate dell’industria cinematografica (produzioni, sale, home video): se la pirateria venisse debellata, tutto questo settore industriale (all’industria ciò appare tautologico) guadagnerebbe di più. Gli studios necessitano di sempre maggiori investimenti per incrementare numero e qualità delle produzioni. Hanno però meno soldi a disposizione, il che significa meno investimenti, meno prodotti o meno qualità. Da ciò conseguono, in linea di massima, una ulteriore riduzione delle entrate e la necessità di “tirare la cinghia”, assumendo e investendo meno. Il tutto si ripercuote sui rapporti con le industrie correlate a quella cinematografica, che a loro volta sono connesse ad altre industrie. Non ultimo: meno entrate si traduce in meno tasse versate.
La domanda che ne segue è scontata: siamo forse sull’orlo del tracollo?
La risposta, però, è controversa , come segnala chi contesta i metodi di indagine di IPI.
Tra questi anche Jason Shultz, legale associato alla Electronic Frontier Foundation , la celebre associazione che si batte per difendere i diritti digitali degli utenti. Shultz spiega come i beni dell’industria cinematografica siano beni voluttuari: ci si può avvalere di essi, oppure decidere di spendere in altri beni equivalenti. Il fruitore di copie pirata che spende pochi dollari per una copia non originale ne avrebbe spesi ben di più per una copia acquistata in modo tradizionale: nelle sue tasche resta del denaro, utilizzabile per concedersi qualche altro sfizio, che potrebbe essere rappresentato da beni complementari a quelli che l’industria cinematografica produce.
Lo studio dell’ Institute for Policy Innovation sembra non considerare, inoltre, che, se la pratica (legale e non legale) della diffusione di contenuti per mezzo della Rete non avesse raggiunto l’ attuale portata , un altro settore dell’economia avrebbe qualcosa da perdere. Forse gli ISP potrebbero permettersi meno investimenti, pagherebbero meno tasse, offrirebbero meno opportunità di impiego, il che si ripercuoterebbe, non diversamente da quanto accade nel caso dell’industria cinematografica, sull’intero sistema economico, fornitori di contenuti compresi.
Gaia Bottà