Sanno di essere osservati, sono consapevoli del fatto che solcare la rete significa disseminare dati che possono ricostruire un quadro completo dei propri comportamenti e delle proprie relazioni. Ma non se ne preoccupano: la pubblicità comportamentale, personalizzata sulla base di rastrellamenti online, è accettata dalla metà dei cittadini della rete statunitensi.
A disegnare il panorama dell’atteggiamento dei netizen nei confronti del behavioral advertising è un’ indagine commissionata da TRUSTe , organizzazione a tutela della privacy che certifica l’affidabilità di servizi e siti web. Due cittadini della rete su tre ne sono pienamente consapevoli : sanno che esistono servizi che vigilano sulle loro abitudini, sanno che ci sono aziende che si incuneano nel rapporto con il provider che li serve, sanno che i dati racimolati vengono venduti agli inserzionisti, sanno che possono diventare target di pubblicità ad hoc.
Nel contempo, la diffidenza nei confronti del monitoraggio di rete operato dalla aziende si attenua progressivamente: i dati raccolti da TRUSTe lasciano emergere un affievolirsi delle apprensioni . Se nel 2008 il 57 per cento degli intervistati temeva di poter impersonare un bersaglio per inserzionisti che si affidassero a dati distillati dal tracciamento, sono ora meno del 51 per cento i netizen statunitensi a diffidare dei comunicati pubblicitari che si fondano sui loro percorsi di rete. La confidenza che gli utenti dimostrano di aver acquisito nei confronti della pubblicità comportamentale, spiega TRUSTe , si consolida di pari passo con le abitudini: sono sempre di più, il 72 per cento, coloro che gradiscono essere attorniati da pubblicità rilevante rispetto ai loro bisogni. In caso contrario, confermano numerose ricerche , trovano i comunicati invasivi e fastidiosi.
Ma a fronte dell’affermarsi della sensazione di fiducia nei confronti della pubblicità comportamentale, cresce il numero dei netizen che è a conoscenza di tattiche per tutelarsi dagli occhiuti intermediari che operano a favore degli inserzionisti: i tre quarti degli intervistati hanno dichiarato di sapersi difendere. Ma non tutti operano per innalzare queste difese: il 39 per cento dei netizen non agisce.
Laddove però non arriva la sensibilità dei netizen tentano di sopperire le istituzioni: è recente la presa di posizione della Federal Trade Commission statunitense, che ha sfornato un codice di condotta a cui dovrebbero aderire gli attori del behavioral advertising. Le organizzazioni di settore si muovono altresì per rassicurare i cittadini della rete che ancora diffidano: la divisione del Regno Unito di IAB ha stilato delle linee guida , direttrici sulla base delle quali bilanciare le spinte del mercato e i diritti alla riservatezza degli utenti. I pilastri su cui si fonda l’autoregolamentazione proposta da IAB sono la massima trasparenza da parte dell’operatore che draga le sessioni online dei netizen, la necessità di garantire l’opt-out e, qualora possibile, di ottenere da parte dell’utente un consenso informato.
Si tratta di principi che non soddisfano le associazioni a tutela dei cittadini della rete: Open Rights Group sottolinea le difficoltà nell’integrare nella contingenza delle linee guida che non sembrano dare conto dei dettagli tecnici di una reale implementazione. Affinché un operatore di behavioral advertising possa schivare l’utente che abbia deciso di non aderire, argomenta ad esempio l’associazione, sarà necessario che la sua macchina ospiti un cookie che attesti la sua scelta: un meccanismo che potrebbe rendere l’opt-out una pratica da ripetere numerosissime volte, in quanto limitata appunto alla macchina e alla scelta di conservare i cookie.
Numerosi attori della rete hanno però manifestato il proprio consenso nei confronti del codice di condotta di IAB: Google e Microsoft hanno aderito, hanno aderito Phorm e NebuAd . Le stesse Phorm e NebuAd che sono ora nel mirino delle autorità, sospettate, così come un numero sempre maggiore di attori del behavioral advertising, di aver sconfinato nella vita di rete dei netizen.
Gaia Bottà