I ragazzi giungono all’università con una preparazione arrabattata e contano su un metodo di studio modellato sull’uso che fanno di Internet. Sono abituati a incamerare i primi risultati mostrati dai motori di ricerca, assimilano le faziosità pubblicate su Wikipedia, dimostrano di non aver sviluppato una coscienza critica. “Io definisco questo tipo di formazione Ateneo di Google “. Questa l’accusa scagliata da Tara Brabazon , docente universitaria con un’esperienza ventennale, ora insegnante di Teorie dei Media presso l’ateneo di Brighton.
Come già avviene in alcune scuole americane , gli studenti che seguiranno il suo corso saranno diffidati dall’utilizzare la rete per prepararsi all’esame e per svolgere i compiti assegnati.
Questi strumenti, ha spiegato Brabazon, “rappresentano l’opzione più facile quando si chiede ai ragazzi di effettuare una ricerca.” L’opzione più facile ma non quella che consente di ottenere i migliori risultati: i ragazzi non meditano abbastanza su quello che si propina loro online.
“Non usano abbastanza il cervello”, approfittano degli strumenti della rete per “ottenere risposte semplificate a domande complesse”. Internet infatti attribuisce lo stesso valore ad ogni contenuto: si tratti di un autorevole trattato accademico, piuttosto che di un saggio semiserio, Google non è in grado di classificare il tipo di informazione a cui garantisce l’accesso, ne fa semplicemente una classifica e non una classificazione. Il risultato? “Non possiamo più dare per scontato che gli studenti arrivino all’università capaci di selezionare ciò che dovrebbero leggere: non conoscono gli standard a cui devono rispondere i materiali che consultano”.
Ma la colpa non è degli studenti né della rete: la docente si infervora contro un sistema educativo che “propaganda con zelo evangelico le nuove tecnologie”. Ma “è tempo di fare un passo indietro e meditare sull’uso che ne facciamo “. È necessario consegnare ai ragazzi gli strumenti della ricerca e dell’analisi, perché sappiano sfruttare la rete con un approccio critico , perché sappiano distillarne il meglio.
C’è chi legge nell’atteggiamento della docente una diffidenza che sembra affliggere il rigido mondo accademico, ancorato al passato: il processo di revisione, il controllo e lo scambio di competenze fra pari in rete sono spesso considerati un metodo caotico per operare sulla conoscenza.
Ma critiche di questo tipo non sussistono. La docente fornirà agli studenti del materiale didattico sottoposto al peer review , per trasmettere ai discenti il valore di un approccio collaborativo al sapere. E ha precisato: “Voglio che saggino l’esperienza delle pagine stampate e voglio che sappiano muoversi nell’ambito del digitale. Questi strumenti hanno entrambi valore e voglio che i ragazzi sappiano trarre il meglio da entrambi”. Imparando a ragionare sui contenuti, i ragazzi potranno partecipare in maniera più consapevole al processo di selezione, di affinamento e di condivisione della conoscenza. Anche in rete.
Gaia Bottà