Gli editori nordamericani pensano sia necessario discutere seriamente di modelli di business per l’online, di raccolta pubblicitaria, di rapporto con Google. Ma pensano sia opportuno farlo, almeno per il momento, in una maniera un po’ più riservata di quanto non si faccia di solito. Per questo stanno organizzando delle riunioni parallele , da tenersi a margine della loro conferenza annuale. Il tutto mentre i big del settore protestano in modo sempre più aperto contro la circolazione gratuita dei contenuti online, e gli addetti ai lavori continuano a dividersi.
Il rumour relativo alle riunioni segrete è stato fornito per primo da Alan Mutter , già direttore di diversi quotidiani ed oggi consulente editoriale. I CEO dei grandi giornali, spiega Mutter, si dovrebbero comunque incontrare per via del meeting annuale della Newspaper Association of America , che sta per prendere il via a San Diego. E allora, continua , hanno semplicemente pensato di integrare il programma con una serie di incontri privati, da tenersi al riparo da telecamere e taccuini.
Nel corso di tali incontri, spiega Mutter, i CEO dei grandi giornali si intratterranno su tutte le questioni più scottanti per le imprese culturali contemporanee, dalla crisi della raccolta pubblicitaria al rapporto con gli aggregatori (grandi e piccoli) di notizie. Ma soprattutto, si intratterranno sul vero problema dei problemi , e cioé la possibilità di imporre dei pagamenti per la fruizione digitale dei propri contenuti editoriali.
I grandi gruppi si dicono convinti che per gli articoli di qualità si debba pagare, anche online. “Le persone si stanno abituando ad ottenere qualsiasi contenuto in modo completamente gratuito online, e questa attitudine va cambiata” ha detto solo pochi giorni fa Rupert Murdoch, proprietario di News Corp . Salvo poi rincarare ulteriormente: “Dovremmo dare a Google, e non solo a Google, la possibilità di rubare tutti i nostri materiali sotto copyright? Credo di no, soprattutto se hai un brand come il WSJ o il New York Times”.
In linea di principio, la posizione del magnate australiano è condivisa dalla grande parte dei suoi colleghi. Salvo che, osserva Roy Greenslade sul Guardian , nel passaggio dalla teoria alla prassi il modello si rompe. Che tradotto significa: quando provano a far pagare per i propri articoli, i quotidiani generalisti perdono più di quanto guadagnano. E finiscono irrimediabilmente per tornare indietro .
Di qui la ricerca di strade e modelli di business nuovi. Da un lato, le grandi testate fanno pressing sui motori di ricerca, chiedendo corsie preferenziali per i propri contenuti o compensi diretti per i contenuti forniti. Dall’altra provano ad ipotizzare scenari del tutto nuovi, talvolta legando i pagamenti a nuovi stili di lettura , talaltra scommettendo sulla diffusione virale dei propri materiali.
Di tutto questo si parlerà nel corso delle riunioni parallele dei grandi editori a San Diego. Salvo che, come osserva ValleyWag non senza sarcasmo, tali abboccamenti avrebbero dovuto svolgersi almeno dieci anni fa. Mentre oggi, a fronte di soggetti di rete sempre più forti ed autorevoli, gli sforzi dei grandi giornali rischiano di risultare vani.
Giovanni Arata