All’indomani della diffusione della notizia relativa al decreto con il quale il Ministro Bondi, il 30 dicembre 2009, ha varato le nuove regole sull’equo compenso per copia privata, in Rete, e fuori dalla Rete, si è aperto un acceso dibattito sulla natura di tale compenso. Il Ministro e la SIAE, in particolare, hanno avvertito l’esigenza di precisare che detto compenso, contrariamente a quanto rilevato in diversi articoli apparsi sulla stampa ed a quanto sostenuto dai rappresentanti di numerose associazioni di categoria, non sarebbe una tassa. “Non è una tassa ma un compenso dovuto per legge a soggetti privati” ha dichiarato il Ministro Bondi, al quale ha fatto eco la SIAE che in un comunicato stampa ha ribadito “No, non è una tassa, perché si tratta di diritti d’autore”.
È una querelle stimolante e, peraltro, non priva di risvolti giuridici da approfondire.
Sul c.d. equo compenso possono, naturalmente, aversi opinioni contrastanti ma, in tutta franchezza, mi sembra difficile sostenere che – almeno nella sua “versione all’italiana” delineatasi attraverso il recente Decreto Bondi – non si tratti di una tassa o, a voler essere pignoli, di una prestazione patrimoniale imposta come lo è il canone RAI, la tassa sui rifiuti o, ancora il contributo per il Servizio sanitario nazionale o piuttosto il famigerato contrassegno SIAE.
Si tratta di una conclusione difficilmente contestabile alla luce della consolidata giurisprudenza della Consulta e della Suprema Corte di Cassazione che, ormai da anni, ha spiegato che quale che sia il nomen juris – contributo, compenso, canone o altro – ciò che conta per qualificare un obbligo imposto dallo Stato quale prestazione patrimoniale imposta o, addirittura, tributo (si tratta di una species del genus “prestazioni patrimoniali imposte”, ndr) è proprio il carattere coattivo dell’imposizione ovvero il fatto che al soggetto passivo dell’imposta non sia lasciata libertà di scelta tra il versarla o non versarla.
Nessun dubbio che nel caso del c.d. equo compenso tale libertà non sussista giacché a norma di quanto previsto dal comma 4 dell’ art. 71 septies LDA l’omesso versamento del compenso è punito “con la sanzione amministrativa pecuniaria pari al doppio del compenso dovuto, nonché nei casi più gravi o di recidiva, con la sospensione della licenza di autorizzazione all’esercizio dell’attività commerciale o industriale da quindici giorni a tre mesi ovvero con la revoca della licenza o autorizzazione stessa”.
Il diritto non è una scienza esatta ma, francamente, in presenza di tali elementi, la questione della qualificazione dell’equo compenso come tassa, in senso lato o prestazione patrimoniale imposta e, probabilmente, tributo, in senso stretto, sembra davvero di facile soluzione.
Perché allora nel Palazzo ci si affanna e ci si preoccupa così tanto a cercare di sostenere il contrario?
Difficile credere che si tratti solo di un problema lessicale o piuttosto mediatico, ovvero che il Ministro Bondi e la SIAE lo facciano per amor di precisione o per sottolineare l’equità del compenso. Esistono tasse eque e tasse meno eque così come compensi equi e compensi iniqui. La ragione, tuttavia, potrebbe essere un’altra.
L’ art. 23 della Costituzione stabilisce che “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”, sancendo così il principio della riserva di legge in materia tributaria: nessuna tassa, prestazione patrimoniale imposta o tributo che dir si voglia può essere imposto se non attraverso una legge dello Stato.
Un atto amministrativo quale, ad esempio, il Decreto di un Ministro non basta!
Certo, l’obbligo di versamento dell’equo compenso trova, in linea di principio, il suo fondamento nell’art. 71 septies della Legge sul diritto d’autore e, almeno formalmente, il Decreto Bondi è titolato “Determinazione del compenso per la riproduzione privata di fonogrammi e di videogrammi ai sensi dell’art. 71 septies della legge 22 aprile 1941, n. 633”.
Occorre, d’altro canto, riconoscere che la Corte Costituzionale ha già reiteratamente chiarito che “il principio della riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione va inteso in senso relativo, limitandosi a porre al legislatore l’obbligo di determinare preventivamente sufficienti criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa” relativi al presupposto impositivo, alla base imponibile, ai soggetti passivi ed all’aliquota.
Tutto a posto dunque? Il Decreto Bondi non viola la riserva di legge sancita all’art. 23 della Costituzione e, dunque, l’obbligo di pagamento dell’equo compenso sull’interminabile elenco di apparecchi e supporti è pienamente legittimo?
Personalmente non ne sono affatto convinto. Nonostante il titolo, infatti, il Decreto Bondi sembra aver forzato i criteri direttivi e le linee generali fissati dal legislatore all’art. 71 septies della Legge sul diritto d’autore.
Un paio di esempi, tra i tanti possibili, per rendere l’idea.
Innanzitutto l’art. 71 septies individua solo tre macro-categorie di oggetti sui quali deve insistere l’equo compenso: (a) apparecchi esclusivamente destinati alla registrazione di fonogrammi e videogrammi, (b) apparecchi polifunzionali destinati anche alla registrazione di fonogrammi e videogrammi e (c) supporti di registrazione audio e video quali supporti analogici, supporti digitali, memorie fisse o trasferibili destinate alla registrazione di fonogrammi o videogrammi.
Il legislatore, dunque, aveva previsto che le sole memorie fisse o trasferibili destinate alla registrazione di fonogrammi o videogrammi fossero soggetto all’equo compenso. L’espressione “destinato” all’art. 71 septies ha un significato univoco: vuol dire che lo scopo dell’apparecchio o del supporto è quello di consentire la registrazione di fonogrammi o videogrammi e non altro. Il Decreto Bondi, forzando le maglie della previsione legislativa ha esteso l’ambito di applicabilità della disposizione sino a ricomprendervi ogni genere di memoria fissa o mobile a prescindere dalla sua destinazione. Le memorie dei telefonini, le chiavette USB, gli hard disk interni ed esterni destinati, difficilmente destinati o niente affatto destinati alla registrazione di fonogrammi e videogrammi si ritrovano, oggi, soggetti all’equo compenso in forza solo ed esclusivamente di un atto amministrativo ovvero del Decreto Bondi.
Un altro esempio: l’art. 71 septies prevede che la misura dell’equo compenso per gli apparecchi sia costituita “da una quota del prezzo pagato dall’acquirente finale al rivenditore” mentre il Decreto Bondi fissa l’equo compenso in una percentuale “del prezzo indicato dal soggetto obbligato nella documentazione fiscale” o in altri casi in una percentuale “del prezzo commerciale”. Si tratta di concetti molto diversi che prescindono dal prezzo effettivamente pagato da un acquirente finale in violazione del criterio fissato dal legislatore. Che si tratti di una soluzione migliore o peggiore, più favorevole ai consumatori o meno, poco conta: ai fini di questo ragionamento ciò che rileva è che il Ministro dei beni e delle attività culturali non può esercitare la propria potestà regolamentare fissando autonomamente la base imponibile di un tributo.
A sfogliare il Decreto Bondi, raffrontandolo con l’art. 71 septies LDA – specie se interpretato alla luce della Direttiva UE 29/2001 – sorgono parecchi dubbi circa la possibilità di ritenere che l’obbligo di pagamento dell’equo compenso sia stato, effettivamente, introdotto nel nostro Ordinamento nel rispetto del principio della riserva di legge.
Se così non fosse, inutile dire, che il decreto sarebbe in tutto o in parte illegittimo e che servirebbe una nuova legge per garantire alla SIAE ed all’industria audiovisiva il lauto compenso – poco conta che si tratti di 180 milioni di euro o piuttosto di 300 – loro garantito dal Decreto Bondi.
Ma andiamo oltre, sempre nell’intento di comprendere perché l’idea che il c.d. equo compenso possa essere definito una tassa ha fatto storcere tanto prepotentemente il naso al Ministro Bondi ed alla SIAE. L’attuale art. 107 del Trattato dell’Unione Europea (ex art. 87 TCE) stabilisce che “Salvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.
Una volta qualificato l’equo compenso come una prestazione patrimoniale imposta dallo Stato a taluni soggetti in favore di altri, difficile sottrarsi almeno dal riflettere sulla circostanza che il Decreto Bondi possa costituire, in realtà, un aiuto dello Stato all’industria audiovisiva – nonché alla SIAE che naturalmente sull’intermediazione dell’equo compenso trattiene una percentuale – al fine di favorirla con evidente rischio di falsare la concorrenza.
È, d’altro canto, fuor di dubbio che l’entità del compenso e l’impatto che esso produce sull’industria nazionale IT così come le modalità di quantificazione siano suscettibili di dar luogo, nel medio periodo, a rilevanti effetti distorsivi della concorrenza tanto nazionali che transnazionali.
Difficile, d’altra parte, resistere alla tentazione di definire “aiuto di stato” il riconoscimento ad uno specifico comparto industriale di un rilevante vantaggio economico in modo completamente scollegato dallo sforzo produttivo e/o dagli investimenti sostenuti da tale comparto: nel 2010 centinaia di milioni di euro (uno, due o tre che siano) di equo compenso finiranno nelle casse dell’industria audiovisiva a prescindere dall’attività e dagli investimenti di quest’ultima e secondo criteri autonomamente elaborati dalla SIAE e dai suoi associati.
Per sottrarsi a tale conclusione, credo sarebbe inutile rilevare che l’equo compenso è previsto in altri Paesi europei in quanto, sin qui, ogni Paese ha proceduto secondo criteri autonomi e non uniformi all’individuazione di differenti parametri quantitativi e qualitativi per l’esazione del compenso.
Tra riserva di legge e disciplina sugli aiuti di stato, forse, la giustizia amministrativa e quella europea possono ancora sottrarre il Paese a questo iniquo equo compenso e restituirgli una chance di pensare a forme di remunerazione dello sforzo creativo dei veri autori più moderne ed eque.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it