Qualche settimana fa, parlando con un vicepresidente di una grande azienda (ma grande grande) del panorama ICT, è venuto fuori il problema della gestione dei diritti dell’individuo nell’era del cloud computing. La tesi del mio interlocutore, che di mestiere si occupa per l’appunto di aspetti legali legati alla tecnologia, era che dopo l’avvento di Internet non abbia molto senso parlare di attribuzione dei contenuti a questo o quell’individuo, quanto piuttosto stabilire chi è investito della responsabilità rispetto a quei contenuti.
La tesi, ma è una mia elaborazione, si potrebbe esplicitare nel seguente modo: siccome l’anonimato e la stessa funzione di contenitore di strutture come YouTube o Facebook non sono regolabili a basso livello, ovvero non si possono controllare tutti i partecipanti e tutti i contenuti riversati nell’oceano del World Wide Web, occorre piuttosto definire un criterio di eleggibilità per l’attribuzione delle colpe quando qualcosa va storto . Che poi, in altre parole, è quanto si sta discutendo nelle stanze in cui si elabora ACTA o anche al Parlamento italiano .
In realtà, e la conversazione è proseguita su questi binari, la faccenda che forse riveste una maggiore importanza per il presente e il futuro dei cittadini è altra rispetto al rispetto e l’enforcement delle regole sul diritto d’autore. Quello che parecchi si domandano oggi sulla Rete è: che fine faranno le miriadi di informazioni personali che quotidianamente riversiamo consapevolmente o inconsapevolmente dentro il calderone di Internet ? Che controllo avremo su quello che ci fa piacere che si sappia e quanto invece vorremmo far sparire? E cosa succede alle nostre informazioni se, dal nostro PC che sta in Italia, finiscono archiviate, catalogate e indicizzate in un datacenter del Vermont?
La cronaca riporta già diversi casi in cui un giudice sia stato chiamato a esprimersi sulla giurisdizione di un tribunale di una nazione sulle informazioni archiviate oltre confine: al momento non esiste un criterio unico ed omogeneo al riguardo, non esistono leggi o accordi internazionali che riguardino la faccenda, non ci sono dichiarazioni di principio su come affrontare la questione della protezione dell’individuo dall’enormità e dal progresso inarrestabile dell’indicizzazione dei crawler. Non ci sono iniziative significative prese dai governi del G8, del G20, degli aderenti al WTO . Non c’è nessuno che si sia posto il problema in termini generali.
Stefano Rodotà da molto tempo porta avanti un concetto che potrebbe paragonarsi a una sorta di Costituzione di Internet, ma che più correttamente lo stesso Rodotà definisce “Internet Bill of Right”: un documento, sottoscritto auspicabilmente dal maggior numero di nazioni, che definisca i diritti dell’individuo in Rete in maniera più decisa e definitiva di quanto non abbiano fatto ad esempio il Trattato di Lisbona o la Carta dei Diritti Fondamentali della UE. Rodotà rivendica il ruolo da protagonista dei governi e della politica nella definizione delle regole, o per meglio dire delle linee guida, che dovranno regolare questo aspetto dell’evoluzione sociale e culturale dell’umanità .
Proprio dalle proposte di Rodotà si potrebbe partire per risolvere la questione che ha tenuto il sottoscritto e il suo interlocutore a discutere, su posizioni contrapposte, per parecchi minuti: i dati, le informazioni, i fatti e gli avvenimenti appartengono agli individui che ne sono protagonisti . Le mie analisi del sangue, i risultati dei miei test e dei concorsi a cui partecipo, mi appartengono per definizione: sono come una nuvola che mi circonda, sono metadati che aleggiano attorno al mio corpo e alla mia testa pur non facendone fisicamente parte. Che siano archiviati sui computer dell’ASL, o sui server di Google o di Microsoft dall’altra parte della Terra, sono miei.
È solo rendendo vero questo assunto, ratificandolo in una dichiarazione di principio che funga da ipotesi di qualsiasi altra discussione, che sarà possibile proseguire nell’evoluzione dell’informazione distribuita: limitarsi a stabilire la responsabilità oggettiva degli operatori e dei fornitori di prodotto non basta a salvaguardare l’interezza degli interessi di un individuo, così come un semplice “diritto all’oblio” non risponde all’esigenza di differenziare su diversi strumenti i diversi comportamenti. La tecnologia deve, in osservanza e consapevolezza di questi principi, contribuire con soluzioni tecnologiche adeguate a permettere l’utilizzo razionale degli strumenti che oggi sono i social network e in futuro saranno i servizi quotidiani.
Così come il corpo e la vita sono un diritto inviolabile, lo stesso vale per le proprie informazioni: chiunque tratti o elabori dati che mi riguardano è tenuto idealmente, filosoficamente ed eticamente a far riferimento al diritto personale che accampo su quei brandelli digitali della mia esistenza .
L’affannarsi di politica, aziende, detentori di diritti di proprietà intellettuale, nel discutere la salvaguardia delle proprie rivendicazioni su pezzi di musica, opere letterarie, idee, filmati, mettono da parte la salvaguardia di informazioni più visceralmente fondanti della definizione stessa dell’individuo che si muove in Rete. Non ci sono ricette particolari da somministrare ai nostri rappresentanti, se non ricordargli che al centro delle loro iniziative e delle loro politiche debbono esserci e restarci i cittadini e le persone : anche quando trattano l’economia di industrie dell’intrattenimento che stentano a recepire le mutazioni del quadro sociale, culturale e tecnologico all’interno del quale portano avanti i propri affari.
Luca Annunziata