Google coopera con i cybersquatter, offre di che vivere a coloro che registrano domini che operano all’ombra di marchi registrati, a coloro che fanno degli errori di battitura un business. Questa la tesi di Vulcan Golf e di un nugolo di accusatori schierati contro BigG. Nonostante la strenua difesa del colosso di search e advertising, il giudice ha disposto che la denuncia debba trasformarsi in un procedimento vero e proprio.
Compare dunque anche Google nei faldoni depositati in un tribunale dell’Illinois da Vulcano Golf et al. . Nel mirino dell’accusa c’è il programma di advertising che Google offre ai gestori di un dominio: consentendo loro di infarcire le pagine vuote di pubblicità contestuale rispetto al nome del dominio scelto , BigG non solo favorirebbe il proliferare di un business basato sulla violazione di trademark, ma sarebbe corresponsabile della violazione del trademark dell’azienda scimmiottata dal cybersquatter.
Google aveva opposto la sua difesa e aveva chiesto che il caso fosse abbandonato, contestando all’accusa che “Google non possiede né gestisce nessuno dei domini citati da Vulcan Golf” e precisando che “né Google né l’inserzionista che si affida al sistema di advertising di Google sfrutta nel testo dell’annuncio pubblicitario il trademark dell’azienda o qualcosa che gli somiglia”. Nonostante Google non riconoscesse la propria colpevolezza, aveva dimostrato di voler collaborare con Vulcan rimuovendo tutti gli annunci pubblicitari incriminati. Una accortezza che Google avrebbe usato nei confronti dell’azienda anche se non avesse intentato una causa.
Ma pare che il processo non si risolverà con un accordo amichevole fra le parti: Vulcan è agguerrita contro i cybersquatter e contro chi alimenta questo business veicolando per loro la pubblicità, e il giudice incaricato di valutare il caso ha confermato che la accuse rivolte contro Google sono sostenibili. Il giudice Blanche Manningha ha infatti stabilito che l’accusa è giustificata dal fatto che Google retribuisce coloro che registrano domini simili a quelli di aziende ben più note, dal fatto che Google analizzi il significato del nome del dominio per massimizzare le entrate pubblicitarie di colui che lo gestisce.
Tutto resta ancora da decidere, ma gli osservatori segnalano come questo caso, se il giudice dovesse dare ragione all’accusa, potrebbe dare uno scossone al già movimentato mercato di coloro che lucrano sui domini inattivi: l’accusa ha chiesto che il caso assuma lo status di class action e la vicenda potrebbe riscuotere risonanza.
Le sorti della grande G, a sua volta vittima di aggressivi cybersquatter e schierata contro gli assaggiatori di domini , sono ancora incerte: il giudice sembra appoggiare un’ inedita interpretazione della legge che regola il cybersquatting e non è ancora chiaro se l’accusa possa fare leva su questa legge o sul quadro normativo a difesa i marchi registrati.
Gaia Bottà