Se lo stato impone il monitoraggio estensivo, se le autorità pretendono di ricondurre ogni traccia lasciata online ad un cittadino della rete, l’autocensura è dietro l’angolo. Se Seul impone la registrazione, YouTube disattiva la possibilità di partecipare alla localizzazione coreana della propria piattaforma.
La legge coreana, entrata in vigore il primo giorno di aprile, impone ai siti che possono vantare più di 100mila visite al giorno di rastrellare nomi e generalità inequivocabili : ogni netizen deve essere ricondotto ad un codice fiscale, ogni cittadino della rete deve poter essere rintracciato da eventuali denunce e azioni legali. Il clima in cui è maturato questo quadro normativo intreccia il timore dell’industria per una pirateria agevolata da una connettività pervasiva con l’apprensione nei confronti di cittadini della rete che brandiscono il proprio diritto ad esprimersi. È successo con un aruspice della finanza capace di prevedere collassi e di influenzare le sorti dell’economia sudcoreana, che ora rischia di dover scontare una pena di 18 mesi di carcere, è successo in occasione delle manifestazioni di piazza dello scorso anno, la cui onda d’urto si è propagata in rete. È così che le autorità di Seul hanno stabilito che i cittadini della rete debbano rinunciare all’anonimato per contrastare e prevenire cyberbullismi e disseminazioni di informazioni dirompenti ma false o sgradite: si contrasterà così “l’aumentare degli svantaggi associati all’uso di Internet, come le fughe di informazioni personali e la diffusione di informazioni pericolose”.
YouTube, in quanto operativo in Corea, avrebbe dovuto adeguarsi il primo di aprile: avrebbe dovuto chiedere ai propri utenti di registrarsi con il proprio nome e cognome, di esporsi con identificativi univoci e noti alle autorità. Lacerante la scelta di fronte alla quale si è trovata Mountain View: attenersi alle leggi dei paesi in cui opera, come ha sempre assicurato di fare e come continua a fare , o decidere di non piegarsi ad un sistema di schedatura che rischia di svilire le potenzialità degli strumenti con cui i cittadini si possono esprimere online. Google ha scelto di opporsi : ha privato i netizen coreani della possibilità di riversare la propria voce sulla piattaforma di video sharing. “Abbiamo concluso che è impossibile offrire agli utenti di Internet certi servizi osservando la legge di questo paese – ha spiegato una portavoce di Google – perché la legge non è in linea con i principi di Google”.
La versione coreana di YouTube non consente più di postare video e di registrarsi , impedisce ai netizen di consegnare i propri nomi e le proprie generalità: “Agli utenti di YouTube – chiarisce Google – sarà consentito di vedere e leggere i commenti come hanno sempre fatto, gli utenti potranno incastonare i video in altri siti”. YouTube si è messa in gioco su un mercato in cui non primeggia: è il quarto portale di sharing coreano, ma non intende rinunciare a guadagnare utenti. Se invita i netizen coreani a godere di YouTube Corea come di una televisione, indirizza altresì i cittadini della rete coreani verso altre localizzazioni del servizio , affinché possano continuare a partecipare avvolgendo la propria identità in un nickname. La privacy è un’opportunità che i portali locali più frequentati non possono offrire ai propri utenti.
“Siamo a favore della libertà di espressione e ci adoperiamo per essere aperti – si annuncia sul blog ufficiale – è importante che se gli utenti desiderano essere anonimi sia loro permesso di avere questa possibilità”. Google non intende ergersi ad arbitro, non intende stabilire ciò che è lecito o non lecito dire: spetta alla magistratura giudicare, sulla base delle leggi e della sensibilità di ogni paese. E se la libertà di espressione è silenziosa in Corea, non dovrebbe esserlo presso le altre versioni della piattaforma di Mountain View.
Gaia Bottà