Per i tecnici un CAD è un Computer Aided Drafting o Computer Aided Design, ovvero un programma che permette di disegnare o progettare – differenza apparentemente piccola ma in realtà sostanziale – attraverso il computer.
Per il nostro Legislatore, invece, il CAD è il Codice dell’Amministrazione Digitale , ovvero quella raccolta di norme che regola ed indirizza l’uso delle nuove tecnologie nella vita pubblica della nostra Italia. In realtà la singolare coincidenza nelle sigle può essere letta come un segno del destino, perché entrambi i CAD servono a progettare il domani, dando concretezza alle idee per nuovi oggetti e dispositivi oppure sradicando quelle prassi consolidate da decenni per traghettare la PA, e con essa la nazione intera, verso il futuro.
A differenza però di norme che restano uguali per lustri, il CAD, nato nel 2005 dalle ceneri di un decreto del 1993, viene rinnovato periodicamente, sia per adeguarlo alle nuove tecnologie che si susseguono rapidissime, sia per alzare via via l’asticella, spingendo quindi le amministrazioni pubbliche verso un più alto livello di gestione informatica delle proprie attività. Una profonda revisione avvenne nel 2010, ora è arrivata la terza versione , senza contare la miriade di piccoli aggiustamenti che si sono susseguiti nel corso degli anni.
Non siamo una rivista di diritto e lasciamo quindi ad altre testate l’approfondimento giuridico dei singoli articoli, ma cerchiamo di dare uno sguardo panoramico sui punti essenziali.
La prima novità che spicca è che le regole non si applicano più soltanto alle pubbliche amministrazioni, ma anche alle Società a controllo pubblico ed a tutte le procedure processuali . Quest’ultimo è un punto particolarmente importante, perché, stante il principio di separazione dei poteri, tecnicamente un Tribunale non è classificato come Pubblica Amministrazione, per cui deve essere citato in modo espresso, cosa che nelle versioni precedenti non avveniva.
In secondo luogo viene ribadito il concetto di domicilio digitale , ovvero un luogo virtuale dove poter recapitare comunicazioni, multe, notifiche ed altri atti ufficiali. Nell’immediato il domicilio digitale coinciderà con una casella di posta elettronica, possibilmente certificata per dare valore legale alla comunicazione. Non si esclude, però, che in un prossimo futuro le comunicazioni ufficiali potranno avvenire attraverso i social o altri sistemi, come già si sperimenta in altri Stati , per cui, giustamente, il Legislatore non ha usato il termine “posta elettronica”, ma ha adottato una dicitura più generica. Interessanti le prescrizioni che obbligano le amministrazioni, qualora il cittadino abbia dichiarato il domicilio digitale, ad usare esclusivamente questa via di comunicazione, senza costi aggiuntivi, togliendo validità ad altre forme di comunicazione. Per contro, però, la scelta di considerare giuridicamente valida, oltre alla posta certificata, ” anche l’utilizzo di altro servizio elettronico di recapito certificato “, da un lato apre a servizi concorrenziali, dall’altro già c’era questo generico richiamo ad un “domicilio digitale”, e non è del tutto chiaro cos’abbia in mente il Legislatore con il riferimento a recapiti alternativi. Anche perché avrebbe poco senso costringere le Pubbliche Amministrazioni, che già avranno difficoltà a gestire un domicilio digitale sotto forma di PEC, a dotarsi di più sistemi di comunicazione certificata.
Interessante anche il richiamo al Regolamento europeo eIDAS ( electronic IDentification Authentication and Signature ) che evita duplicazioni (e soprattutto discrepanze) nelle definizioni. Questo testo, siglato nel 2014, ha l’obiettivo di fornire una base normativa a livello comunitario per i servizi fiduciari e i mezzi di identificazione elettronica degli stati membri, al fine di stabilire disposizioni uniformi che consentano di aumentare la fiducia dei consumatori, e quindi incrementare il commercio elettronico e lo scambio dei dati all’interno dell’Unione, e deve chiaramente coordinarsi con i testi, europei e nazionali, che regolano la vita digitale dell’Europa nel suo insieme e dei singoli Stati che la compongono.
Si ribadisce poi l’importanza e la diffusione dello SPID , si favoriscono i pagamenti elettronici, si re-introduce il concetto di documento informatico (eliminato da un aggiustamento precedente, forse erroneamente, forse perché si riteneva sufficiente il DPCM 13 novembre 2014, lasciando così un vuoto riguardo alla validità legale di alcuni atti redatti in forma digitale). Questo documento informatico è definito come la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti ed è un concetto particolarmente importante perché stabilisce che un documento digitale può rappresentare – come è oramai ovvio, ma bisogna che la legge lo preveda – tutti quei documenti valevoli giuridicamente, al pari dell’equivalente cartaceo, ed essere quindi usato per contratti, istanze, prove processuali e simili.
Interessante, alla luce della semplificazione, la disposizione che consente al cittadino di non conservare atti che devono essere obbligatoriamente custoditi dalla PA , alla quale possono essere richiesti in qualunque momento (a dire il vero la lettera della norma non prevede che la richiesta debba avere seguito, ma è probabilmente solo un modo poco chiaro di esprimere il concetto). A titolo personale continuerò a conservarli lo stesso, ma certamente sono io ad essere diffidente riguardo alla facile accessibilità futura, mentre qualcuno è molto critico , vedendo in questa norma un modo per rendere i cittadini subordinati alla PA e da essa troppo dipendenti. In questo non riesco ad essere d’accordo, dato che la norma non vieta di conservare ciò che si vuole, semplicemente ritiene che un cittadino o un’impresa non abbiano un obbligo giuridico a farlo. Ad esempio una ditta che abbia fatturato solo a pubbliche amministrazioni potrà non conservare le fatture, senza che da un’eventuale ispezione fiscale possa derivare una sanzione.
Ciò che invece lascia perplessi sono anzitutto il rinvio dell’obbligatorietà del cosiddetto “digital first” , ovvero l’obbligo per la PA di produrre originali solo in forma elettronica, togliendo validità giuridica al cartaceo. Vero è che un po’ di tempo in più per attrezzarsi non guasta, e che chi è già pronto può partire comunque, ma le false partenze non sono mai positive e non danno un’immagine di serietà del sistema. Inoltre il passaggio non è stato rimandato ad una data certa, bensì subordinato ad un ulteriore decreto di adeguamento tecnico che dovrebbe uscire a dicembre, ma la cui puntualità sarà da verificare alla prova dei fatti.
Un passo indietro, invece, è stato fatto “sforbiciando” alcuni commi che prevedevano l’ interoperabilità e la pubblicazione dei dati in formato aperto . Non è assolutamente chiaro, dopo tutti gli sforzi fatti per diffondere questi formati, il motivo dell’abrogazione. Vero è che molto di questi principi è confluito nel cosiddetto “decreto trasparenza”, che obbliga a pubblicare determinate informazioni, ma l’obbligo di un formato aperto avrebbe certamente migliorato enormemente la fruizione.
Inoltre ci si aspettava qualche spinta verso l’utilizzo del software libero ed il riutilizzo all’interno della PA, invece non si è fatto praticamente nulla, anzi, sono stati abrogati due articoli che favorivano la condivisione, la modularità, l’utilizzo di almeno un formato aperto.
Però, a costo di ripetermi, quello che di fondamentale manca e rischia quindi di vanificare lo sforzo compiuto è la previsione di un piano, concreto ed attuabile, ben finanziato e tenuto sotto controllo con attenzione, che guidi tutti, cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni nella nuova realtà digitale. Perché finché tutte queste norme saranno sempre ” senza maggiori oneri per la finanza pubblica “, anche i prescritti piani di formazione del personale resteranno lettera morta. E col fallimento dell’applicazione delle norme resteranno pura teoria anche i grandi risparmi che si potrebbero conseguire con un’attenta gestione digitale, ripagando certamente le risorse finanziarie messe a disposizione per i corsi di formazione.
In conclusione, il nuovo CAD, pur con qualche ombra, rappresenta certamente un significativo passo avanti nel nuovo millennio, anzi, come dicevo nel titolo, due o tre passi avanti, ma anche uno indietro. Meglio così che un solo passo indietro, ma auguriamoci soprattutto che la sua applicazione sia concreta, diffusa capillarmente e non a macchia di leopardo, con eccellenze in alcuni Enti e troppe miserie sul resto del territorio.
Diego Giorio