Subito dopo l’ annuncio di Apple di profitti pari a 13 miliardi di dollari, il New York Times ha pubblicato un reportage che ripercorre i costi umani conseguenti alla produzione asiatica dei dispositivi della Mela .
Due anni fa 137 lavoratori sono finiti avvelenati da un prodotto chimico impiegato per pulire gli schermi iPhone, solo negli ultimi sette mesi sono state due le esplosioni che hanno coinvolto centri di produzione di fornitori Apple: uno di Pegatron , uno di Foxconn a Chengdu, con un bilancio di 4 morti e 77 feriti.
Proprio su una delle vittime dell’esplosione avvenuta nella fabbrica di Chengdu si è concentrato il NYT, cercando di dare un volto, un nome ed una storia, così da aggiungere particolari a numeri già di per sé drammatici: racconta così del ventiduenne Lau Xiaodong, morto sul posto di lavoro che gli rendeva 22 dollari al giorno e del gruppo Students and Scholars Against Corporate Misbehavior che due settimane prima del drammatico incidente aveva denunciato le condizioni di sicurezza e di salute nella fabbrica di Chengdu, spedendo le sue osservazioni anche a Cupertino. Senza però ricevere risposta.
Numeri e storie drammatiche, certo, ma niente di nuovo nel reportage, anche se certo il quadro non è di poca importanza: Apple rappresenta l’ occasione , e la concomitanza con la sua trimestrale la cassa di risonanza , ma il problema va oltre alla produzione di dispositivi con la Mela. Gli stessi produttori di componenti hardware lavorano anche per altre grandi aziende ICT, tra cui Microsoft, Hewlett-Packard, Dell e Sony, e i problemi sono più legati ai lati oscuri dell’economia creata dai processi di delocalizzazione e di globalizzazione, che a responsabilità dirette delle aziende occidentali.
Queste, quando sono in maggiore imbarazzo per episodi che fanno male alla propria immagine, solitamente si limitano a intervenire con dichiarazioni di intenti, condanne morali ai produttori che costringono i lavoratori a condizioni di lavoro indecenti e all’ imposizione di codici di comportamento a favore della trasparenza e di un sano sviluppo del diritto del lavoro. Tutti interventi, però, che hanno un valore direttamente proporzionale alla volontà dei diretti interessati (aziende e governi locali) di seguirli. E che si spera che possano ora diventare più concreti con l’adesione di Apple alla Fair Labor Association , la rete non profit che monitora le condizioni di lavoro in tutto il mondo e che ora svolgerà anche i controlli nelle fabbriche dei fornitori come istituto indipendente alla ricerca di quei comportamenti che possono far perdere ai produttori importanti contratti di lavoro.
L’idea del NYT è che, facendo pressione sui suoi consumatori, la pressione di Cupertino potrà essere più decisa e forte nei confronti dei suoi fornitori, e spingere così a cambiare questi comportamenti, magari anche a fronte di costi o metodi di produzione diversi: se al prezzo di vendita di un iPad si aggiunge il costo della vita di quei lavoratori, è evidente che tutto il mercato diventa insostenibile.
Soluzioni, d’altronde, ce ne sono: un’occasione, giusto per fare un esempio di come la globalizzazione potrebbe essere anche la risposta, è rappresentata dalla recente decisione del Brasile di concedere, dopo mesi di trattative , a Foxconn una serie di agevolazioni fiscali (riduzioni, esenzioni e sospensioni) tali da portar fuori la produzione dei dispositivi elettronici da paesi come la Cina dove la normativa in materia di tutela dell’operaio è quanto meno incompleta. Resta da capire se le condizioni delle fabbriche brasiliane saranno migliori per i lavoratori.
Claudio Tamburrino