Negli ultimi mesi su queste pagine e altrove si è spesso discusso della PEC , la posta elettronica certificata, e della politica legislativa attraverso la quale si vorrebbe imporre l’uso di tale strumento ai cittadini, ai professionisti e alle imprese italiane a dispetto della scarsa informatizzazione del Paese che continua a ricoprire la 22esima posizione nella classifica stilata dall’OCSE sulla diffusione della banda larga.
Non sembra, tuttavia, che detti sforzi di dialogo e confronto abbiano sin qui prodotto i risultati auspicati.
Nelle prossime settimane il Ministero dell’Innovazione selezionerà il fornitore di Stato della CEC PAC – l’ormai famosa PEC utilizzabile nei soli rapporti tra PA e cittadini – ACI e INPS hanno, ormai, iniziato a distribuire una PEC della quale non sono, tuttavia, ancora chiari i limiti di utilizzo (solo rapporti con la PA e gli enti che la rilasceranno o, finalmente, una PEC a norma di legge utilizzabile in ogni contesto?), presso le camere di commercio prosegue la distribuzione massiccia di indirizzi di posta elettronica certificata assegnati “gratuitamente” da INFOCERT ad ogni nuova impresa della quale si chieda l’iscrizione nel registro delle imprese e, last but not least , tutti gli ordini professionali – sebbene in un clima di enorme confusione – stanno cercando di garantire ai propri iscritti, così come richiesto dalla normativa vigente, un indirizzo di posta elettronica certificata.
In tale contesto non resta che guardare avanti ed iniziare a riflettere su cosa accadrà se e quando il Paese avrà più PEC che PC e connessioni a banda larga.
C’è, infatti, un problema del quale non si è sin qui parlato.
La PEC – così come la sua sorella minore CEC PAC – serve ad offrire adeguate garanzie legali circa l’effettiva spedizione e l’effettivo ricevimento di un messaggio di posta elettronica tra due soggetti ovvero quelle medesime garanzie che nel sistema postale tradizionale sono assicurate dalla raccomandata con ricevuta di ritorno. Esattamente come nel modello tradizionale, peraltro, la garanzia di avvenuta ricezione di una comunicazione da parte del destinatario è affidata ad una presunzione di mera conoscibilità della comunicazione per essere quest’ultima pervenuta ad un determinato indirizzo a nulla rilevando – sotto un profilo giuridico – l’effettiva conoscenza della comunicazione medesima da parte del suo destinatario.
In tale contesto è evidente che anche in relazione alla posta elettronica certificata – così come accade nel mondo degli atomi – un ruolo di indiscussa centralità nel sistema è rivestito dal rapporto sussistente tra il destinatario di una comunicazione e l’indirizzo al quale tale comunicazione è spedita.
Detto indirizzo deve, nel sistema tradizionale, necessariamente essere quello di residenza o domicilio o, piuttosto, quello della sede di un’impresa.
Non è pertanto azzardato definire l’indirizzo di posta elettronica certificata come l’indirizzo del domicilio elettronico del destinatario.
Nel nostro Ordinamento – così come in quello di ogni altro Paese democratico – vige il principio della libertà di domicilio in forza del quale ciascuno può liberamente fissare e trasferire il proprio domicilio nel luogo in cui, di volta in volta, intende – o comunque si trova – a radicare i propri “affari e interessi”. Il domicilio, inoltre, può anche essere eletto in relazione a specifici affari.
Si tratta di considerazioni che il legislatore, nella disciplina attraverso la quale è stata introdotta la PEC nel nostro Paese e nelle regole tecniche attraverso le quali sono state disciplinate le modalità di uso e funzionamento di tale strumento, ha avvertito l’esigenza di trasporre anche nel mondo dei bit e nel sistema delle comunicazioni elettroniche.
Non poteva, d’altra parte, che essere così.
Al riguardo, infatti, il comma 2 dell’art. 4 del D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68 recante “Disposizioni per l’utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell’articolo 27 della L. 16 gennaio 2003, n. 3″ stabilisce che ” Per i privati che intendono utilizzare il servizio di posta elettronica certificata, il solo indirizzo valido, ad ogni effetto giuridico, è quello espressamente dichiarato ai fini di ciascun procedimento con le pubbliche amministrazioni o di ogni singolo rapporto intrattenuto tra privati o tra questi e le pubbliche amministrazioni. Tale dichiarazione obbliga solo il dichiarante e può essere revocata nella stessa forma “. A conferma della libertà ed importanza della scelta dell’indirizzo di domicilio informatico, inoltre, i successivi commi 3, 4 e 5 della medesima disposizione prevedono che l’indirizzo valido ai fini delle comunicazioni a mezzo PEC non possa essere semplicemente desunto dalla sua indicazione nella corrispondenza ma debba formare oggetto – tanto per i cittadini che per le imprese e tanto per i rapporti tra privati che per quelli con la PA – di un’esplicita dichiarazione suscettibile, inoltre, di revoca in ogni momento.
Tale dichiarazione, peraltro, qualora svolta in via informatica necessita – secondo le richiamate disposizioni – della c.d. forma scritta elettronica ovvero della “sottoscrizione” a mezzo firma digitale. Il comma 3 dell’art. 16 dello stesso D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, inoltre, stabilisce espressamente che ” le pubbliche amministrazioni garantiscono ai terzi la libera scelta del gestore di posta elettronica certificata “.
Si tratta di un complesso di disposizioni non interessate dalla miriade di provvedimenti normativi degli ultimi mesi e, pertanto, tuttora in vigore.
In tale contesto non vi è, pertanto, alcun dubbio che cittadini, professionisti e imprese sono e restano liberi in ogni momento di modificare il proprio indirizzo di domicilio informatico ovvero l’indirizzo di posta elettronica certificata del quale si siano dotati – gratuitamente o a pagamento – così come di farne del tutto a meno. Per far ciò è – e sarà anche in futuro – sufficiente una semplice dichiarazione di contenuto contrario a quella con la quale si sarà manifestata la volontà di ricevere corrispondenza elettronica ad un certo indirizzo.
Si tratta, d’altro canto, di un diritto che costituisce trasposizione nel mondo dei bit della libertà di domicilio.
Egualmente – e per le stesse ragioni – non pochi dubbi sussistono circa la legittimità delle disposizioni introdotte negli ultimi mesi con provvedimenti di rango secondario in palese contrasto con previsioni e principi contenuti nelle richiamate norme primarie. Il punto, tuttavia, non è questo perché, anche a voler guardare al futuro ed essere disposti a “perdonare” gli “eccessi di potere” dell’Amministrazione, c’è di più.
A scorrere i recenti provvedimenti amministrativi attraverso i quali il Governo sembra intenzionato a rendere la PEC lo strumento di comunicazione di riferimento nei rapporti tra cittadini e PA e tra imprese, nonché nel leggere i comunicati stampa delle ultime settimane, infatti, sembra che il contesto normativo di riferimento così come quello di mercato siano sfuggiti al Ministero dell’Innovazione.
Non si comprendono diversamente le ragioni di una partita tanto importante e dispendiosa quale quella che il Ministro Brunetta sta giocando.
La diffusione di milioni di indirizzi di posta elettronica certificata di cui diverranno titolari – più o meno consapevolmente e volontariamente – cittadini, professionisti ed imprese rischia, infatti, di costituire – almeno nel medio periodo ed in assenza di più profondi e radicali interventi normativi – solo un ulteriore ed inutile elemento di costo per il sistema Paese ed un grave fattore di incertezza nei rapporti giuridici tra cittadini e PA e tra privati.
In assenza, infatti, di un obbligo di legge – peraltro, allo stato, difficilmente giustificabile dato il grave ritardo nell’informatizzazione del Paese e la drammatica situazione sul versante del digital divide – relativo all’individuazione di un indirizzo di domicilio informatico da parte di ogni cittadino, è evidente che il sistema delle comunicazioni continuerà, ancora per anni, a restare affidato ad un “doppio binario” cartaceo-elettronico che non consentirà né di ridurre i costi di gestione dei procedimenti e degli affari né di semplificarli.
Allo stesso tempo, in assenza di un’anagrafe nazionale – o di una rete di anagrafi regionali interoperabili – dei domicili informatici contenente tutti gli indirizzi di posta elettronica certificata individuati dai cittadini italiani, ogniqualvolta si procederà all’inoltro di una comunicazione a mezzo PEC occorrerà verificare se si stia utilizzando il corretto indirizzo in relazione allo specifico affare o procedimento oggetto della comunicazione e se, la volontà del destinatario di ricevere corrispondenza a tale indirizzo non abbia formato oggetto di revoca o modifica.
Ogni cittadino sarà titolare di decine di indirizzi di posta elettronica certificata fornitigli dalle amministrazioni centrali e periferiche, dai diversi enti con i quali si troverà ad interagire, dalle società di telecomunicazione nella speranza di fidelizzare la propria clientela, dagli ordini professionali di appartenenza e, ancora, da decine di altri soggetti e per decine di altri scopi. È sin troppo facile prevedere che ciò determinerà – ogniqualvolta sarà necessario procedere all’inoltro di una comunicazione elettronica – ragionamenti, procedimenti e meccanismi troppo complessi ed incompatibili con la velocità degli scambi commerciali e quella che auspicabilmente dovrebbe, in futuro, contraddistinguere anche il dialogo tra PA e cittadini.
Nessuna semplificazione, dunque, all’orizzonte ma solo la costruzione dell’ennesima infrastruttura informatico-giuridica destinata ad essere snobbata dal mondo degli affari, superata dai tempi e a costituire un ennensimo freno allo sviluppo del mercato come già accaduto in occasione dell’introduzione nell’Ordinamento delle firme digitali.
Non si tratta di opporsi all’innovazione ma al contrario di promuoverla partendo, tuttavia, da metodi e processi piuttosto che dalla tecnologia.
Non credo che un Paese con milioni di indirizzi di posta elettronica certificata sia necessariamente più moderno di un Paese che scelga di farne a meno o di lasciare affidata la diffusione di tale strumento ai tempi del progresso e dello sviluppo culturale.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it