Riceviamo e pubblichiamo alcuni estratti di una lettera inviata da Paolo De Andreis a Punto Informatico, relativa alla proposta Maroni in materia di autoregolamentazione del World Wide Web. Di seguito un commento della Redazione.
Clint il Gambero è un animale intelligente, i suoi movimenti ingannano perché obliqui, inaspettati. Il gambero pistolero aggiunge a tutto questo una chela enorme, assai più grande dell’altra, che si fa notare per il bang prodotto dall’esplosione di piccole bolle d’aria. Un animale curioso dal quale il Governo ha preso in prestito molte caratteristiche.
La prima è il movimento laterale. Non si possono spezzare le reni alla libertà di espressione affrontandola frontalmente come fosse una spedizione militare, la debacle è pressoché sicura. Tocca circumnavigare con pazienza il suo nocciolo, saltellare tra casi di cronaca, presunta sacralità della privacy e discutibili decisioni della magistratura per definirne un perimetro che appaia ragionevole. Da qui la decisione di Maroni di presentare, come già i Governi nostrani han provato a fare altre tre volte in cinque anni, un codice di auto-regolamentazione dei servizi Internet. Con una novità: questa volta si invita chiunque operi su Internet a cancellare tutto quello che ritenga ledere “la dignità umana”, locuzione che nella migliore tradizione dell’ambiguità giuridica italiana non ha alcun significato. Il tutto sulla sola base di una “opportuna segnalazione” e non di un provvedimento della magistratura.
In tutto questo di “auto” non c’è nulla, perché chi dovrebbe proporre l’autocosa (a sé, ai propri amici, utenti, clienti o partner) non è neppure stato consultato. Di “regolamentazione” c’è invece tutto. Basta leggersi le carte pubblicate dal Sole per percepire quale sia il vero obiettivo: puntare sull’autocastrazione di provider, fornitori di servizi, persino blogger e – perché no? – gestori di pagine Facebook, pur di evitare che un qualche facinoroso libello rimanga pubblicato più a lungo di quanto la Polpost o chi per lei impieghi a rimuoverlo. Senza alcuna definizione specifica di quali siano i contenuti da rimuovere.
In passato si è tentato di criminalizzare i provider per quanto pubblicato dagli utenti, di renderli responsabili per la mancata immediata rimozione di contenuti che qualcuno poteva considerare illegali, di trasformarli in cyber-poliziotti con sanzioni a carico per eventuali mancanze. Lo si è fatto, in ogni occasione, sbandierando normative europee che dicevano l’esatto contrario, proprio come in questa occasione. Non che servisse, le denunce a carico di utenti, blogger, provider e fornitori di servizi non sono mancate, i casi clamorosi di censura tout court nemmeno, non i sequestri di interi siti e nemmeno la cancellazione dal web italiano di decine di migliaia di siti internazionali. Epperò tutto questo non è mai bastato, non bastava allora, non basta ora.
In un paese nel quale è sufficiente il nome di un gruppo Facebook per dimenticare le riforme e trasferire il dibattito politico sull’imminente fine del Mondo, il Codice vorrebbe tutele ulteriori rispetto a quelle già offerte in lungo e in largo dalla legge. E chiede che chi si darà un’autoregolamentata lo dichiari esponendo sul proprio sito un “opportuno marchio di qualità sui siti Internet”. In particolare gli imbollinati dovrebbero saper agire per garantire la liceità dei contenuti “veicolati o ospitati” e “il rifiuto di ogni forma di discriminazione fondata sul sesso, la pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”. Perché insomma delegare ad un magistrato il compito di comprendere se il diritto di qualcuno è stato calpestato, in che misura e cosa questi comporti, quando lo può fare chiunque “operi su Internet”? Il marchio, invece, potrà garantire a chiunque di rimuovere contenuti sgraditi sbandierando l’immacolata bandiera di un interesse superiore e schivando così le giuste reprimende per un’azione di questa gravità.
Tornando a Clint, lo sparo sembra aver svegliato i sonnacchiosi operatori di settore: in queste ore si susseguono contatti tra aziende, politici ed avvocati. Tra di loro sopravvive qualcuno che già in passato è riuscito a far deviare altrove provvedimenti analoghi, non possiamo che sperare che dia presto buone notizie. Nel frattempo sarebbe bene dargli una mano, magari tenendo tutti d’occhio il gambero e quella chela, decisamente troppo grossa per essere agitata così malamente senza far danno.
Paolo De Andreis
La questione posta da Paolo è quantomai centrale. Proporre una regolamentazione scritta senza il contributo degli stakeholder, e apparentemente in aperto contrasto con le regolamentazioni e la giurisprudenza attuale in materia di responsabilità degli intermediari, pone gli operatori del settore in un impasse significativo: accettare il bollino e impegnarsi economicamente e operativamente, oppure ignorarlo? E se in futuro questo bollino diventasse obbligatorio?
Le regole del Web non possono essere scritte a tavolino, bensì mutuate dall’esperienza e dallo stato dell’arte, condendole con il buonsenso e armonizzandole con il quadro legislativo nazionale e sovranazionale. Da anni su questa testata si discute dell’iniziativa del Professor Rodotà per una Internet Bill of Right , e alla luce delle sempre più frequenti polemiche sulla gestione dei dati personali, e della carenza di un’adeguata regolamentazione a livello europeo e internazionale, la questione resta a distanza di anni sempre centrale.
C’è da augurarsi che questa iniziativa del Governo italiano, pur emendabile nel merito, serva da avvio di un dibattito che porti allo stesso tavolo, finalmente, gli operatori del settore e il legislatore, per tentare di offrire una base solida e formale per la gestione della vita dei cittadini in Rete, senza cercare di soffocare il diritto alla libertà d’espressione e alla pluralità che Internet ha saputo donare ai netizen in questi anni.