Questa settimana nella consueta Bustina di Minerva sull’Espresso in edicola, Umberto Eco parla di impronte digitali. La tesi sostenuta da Eco è che nelle società moderne, in conseguenza delle nuove forme di guerra introdotte, è diventato indispensabile avere la possibilità di riconoscere con certezza chi ci sta di fronte. Questa certezza non può essere data dalla comparazione con una foto incollata su di un documento spesso vecchio di decenni. Prendete la vostra patente e confrontate l’immagine di quel diciottenne pieno di capelli con quella che vedete riflessa nello specchio; neppure vostra madre, probabilmente, vi riconoscerebbe. Servono, per identificare con certezza una persona, delle caratteristiche che non mutino nel tempo e non possano essere facilmente modificate, magari con un intervento di chirurgia plastica.
Il tema, però, è più generale di quanto appaia nell’articolo del massimo semiologo italiano: è il tema del riconoscimento personale nelle società attuali, in cui molte delle persone che incrociamo quotidianamente sono completamente sconosciute e in cui molte delle transazioni che avvengono sono mediate da protesi mediatiche, che fanno scomparire l’interlocutore.
La situazione era completamente diversa ancora meno di un secolo fa, quando la vita della maggior parte delle persone era circoscritta alla zona in cui erano nate e tutti si conoscevano (come ancora oggi avviene nei piccoli centri lontani dai grandi agglomerati urbani). Le cose iniziano a cambiare con la diffusione, nel secondo dopo guerra, di mezzi di trasporto pubblici e privati: gli individui si spostano più facilmente, soprattutto per lavoro, e più facilmente incontrano sconosciuti.
Questa trasformazione giunge al suo culmine con l’introduzione dell’ICT: non sono più le persone a spostarsi e gli incontri che prima avvenivano vis-à-vis, ora sono mediati dalla nostre protesi tecnologiche. Questa scomparsa del corpo provoca la necessità strumenti che mi rendano sicuro dell’identità di colui con cui sto parlando e permettano di rendere certa l’eventuale transazione economica che avviene tra di noi; in altre parole ho bisogno dell’analogo digitale della stretta di mano che conclude ancora oggi alcuni tipi di contratto. I mezzi per fare questo sono ormai alla portata di tutti, penso alla firma digitale e alla posta elettronica certificata, che sono in Italia anche, almeno in alcuni ambiti come quello giuridico, relativamente diffusi.
L’articolo di Eco, però, mette in evidenza il fatto che la necessità di riconoscimento personale sicuro, almeno nelle affollate società occidentali attuali, non può essere relegata al mondo dell’ICT. È diventato indispensabile (o forse, si percepisce come indispensabile) che siano riconoscibili con certezza anche le persone che si incontrano fisicamente, una certezza che, come ho già detto, non può essere garantita da una foto: esperimenti recenti sull’accuratezza del riconoscimento da parte di agenti umani hanno dato dei risultati molto al di sotto della aspettative; in altri termini, non solo le macchine, ma anche gli esseri umani sono tutt’altro che infallibili quando di tratta di associare un volto ad una foto.
Oltre a difficoltà intrinseche, nell’atto del riconoscimento ci sono anche difficoltà che sono culturalmente determinate: ad esempio, difficilmente distinguiamo un turista giapponese da un altro e, d’altra parte, un giapponese difficilmente distingue un gaijin da un altro; o, ancora, vi sono culture in cui le persone vanno in giro con il viso coperto, perché non mostrare il volto in pubblico non significa nascondersi o mascherarsi. Tutti questi fattori rendono il riconoscimento di una persona tramite il riconoscimento del suo viso talvolta impossibile, talvolta difficile e comunque sempre incerto. Perché, dunque, non pensare strumenti tecnologici che permettano di riconoscere una persona con certezza, indipendentemente dal modo in cui appare ai nostri occhi?
Andrea Rossetti
A. R. è professore associato di Filosofia del diritto e Informatica giuridica presso l’Università Milano-Bicocca