L’accusa è quella di rastrellare contatti attingendo alle caselle di posta elettronica personali fornite per scopi di sicurezza, contatti a cui verrebbero inviate email con insistenti inviti a connettersi con l’utente o a prendere parte alla rete sociale di LinkedIn: il social network è ora nel mirino di una class action intentata da quattro utenti statunitensi.
Email imbarazzanti, inviate a ex-partner, a colleghi di lavoro ritenuti non equilibrati, alla concorrenza, a persone che probabilmente non ricordano affatto il nome del mittente che LinkedIn ha impersonato per disseminare i propri inviti. Per questo motivo quattro utenti del social network hanno sporto denuncia : nel momento in cui ci si iscrive al social network, LinkedIn chiede di fornire un indirizzo email personale per confermare la propria identità e per recuperare eventuali dati di accesso perduti. Questo indirizzo email, qualora l’utente si lasciasse convincere a intessere una di contatti più fitta e non leggesse con attenzione le condizioni d’uso, finisce per trasformarsi in un distributore di inviti indifferenziati, importando gli indirizzi dei propri contatti e disseminando email a nome del possessore dell’account.
Il nodo della questione, sottolinea l’accusa, è il metodo con cui LinkedIn procede al prelievo delle email di soggetti terzi: “Se un utente LinkedIn lascia aperto il proprio account di una email esterna, LinkedIn si spaccia per l’utente e scarica sui propri server gli indirizzi email contenuti ovunque nell’account”. Il tutto, denunciano gli utenti senza però fornire alcun dettaglio tecnico, senza richiedere una password o senza ottenere il consenso dall’utente.
L’obiettivo di LinkedIn? Quello di tempestare questi contatti di inviti formato email (in un numero di tre , per evitare che il messaggio sfugga al destinatario) a nome dell’utente, con un meccanismo poco chiaro per interrompere il processo. Il tutto per conquistare nuovi membri, oltre ai 238 milioni che il social network vantava nel mese di giugno 2013, assorbiti grazie anche a queste pratiche virali. Si tratterebbe di membri che, secondo l’accusa, valgono non poco, dato che LinkedIn vende ai propri utenti a un prezzo di 10 dollari il contatto con account non direttamente collegati alla propria rete di conoscenze, altrimenti irraggiungibili.
L’accusa pretende che LinkedIn ponga fine a queste pratiche, che violerebbero le leggi sulla privacy, le leggi che tutelano dalle intercettazioni e dall’accesso non autorizzato alle informazioni, che regolano le comunicazioni commerciali, e chiede un risarcimento non meglio specificato.
LinkedIn non ha esitato a replicare smentendo qualsiasi comportamento illegale e ribadendo il proprio impegno nell’agire con la massima trasparenza rispetto agli utenti. Semplicemente, il comportamento descritto nella class action “non è vero”: la pratica di importare i contatti dell’utente da fonti terze, oltre ad essere comune a pressoché qualsiasi social network, sarebbe sotto il completo controllo dell’utente.
Gaia Bottà