Linus Torvalds vuole anche per il mondo Linux un linguaggio più “politically correct”, spurio di parole e modi di dire che possano contenere al proprio interno tracce di razzismo celate tra le consuetudini del linguaggio. Linux non è certo la prima community ad affrontare questo aspetto, cosa che ha aperto anche a polemiche che aiutano tuttavia a definire in qualche modo il confine tra il merito e l’ipocrisia di tali proposte.
Linux: stop a schiavi e black list
Per il mondo Linux l’obiettivo è arrivare ad una eliminazione di master/slave, così come ad una rimozione di termini come “black list” e “white list“. Il bianco e il nero non debbono più essere sinonimi o riferimenti semantici per il bene ed il male, insomma, ed occorre cercare delle alternative.
Per la dicotomia master/slave, in particolare, sono emerse queste proposte:
- primary/secondary
- main/replica or subordinate
- initiator/target
- requester/responder
- controller/device
- host/worker or proxy
- leader/follower
- director/performer
Per sostituire “black list” e “white list”, invece:
- denylist/allowlist
- blocklist/passlist
La scelta è lasciata alla community, il principio è quello espresso da Linus Torvalds ed ereditato dal movimento Black Lives Matter: occorre far piazza pulita dei bias culturali che tengono in piedi il razzismo poiché è solo con questa epurazione che si può sperare di eradicare prima o poi in modo definitivo uno dei mali più duraturi nel percorso dell’uomo su questa Terra. Anche il mondo dell’informatica ne era portatore, così anche il mondo dell’informatica ha voluto farsi interprete della protesta: niente schiavi e niente neri, solo entità neutrali a tutela dell’identità di tutti e della parità come elemento standard.
Se il linguaggio sarà più inclusivo, lo saranno forse un giorno anche le persone. Ognuno faccia la propria parte.