La domanda è posta in modo serio e spontaneo da Romelu Lukaku, nuovo giocatore dell’Inter, personaggio che in breve tempo potrebbe diventare vera e propria bandiera di questa lotta: cosa possiamo fare tutti assieme contro il razzismo? Ed in questo appello sono tirati tutti in ballo, ma un riferimento specifico è dedicato ai social network: che si fa?
“Signore e signori, siamo nel 2019 e invece di andare in avanti stiamo andando indietro“. L’appello, scritto in bianco su sfondo nero e pubblicato sull’account Instagram del giocatore (4,8 milioni di follower), altro non è se non la prosecuzione dell’intensa occhiataccia che solo poche ore fa, dopo aver siglato un calcio di rigore, Lukaku ha riservato ai tifosi avversari che, invece di limitarsi alla passione sportiva, si sono abbandonati al più becero razzismo.
L’appello di Romelu Lukaku
Visualizza questo post su Instagram
Le piattaforme per i social media (Instagram, Twitter, Facebook) devono lavorare meglio così come le società delle squadre di calcio perché ogni giorno si può vedere almeno un commento razzista sotto i post di persone di colore. Lo diciamo da anni ma ancora non abbiamo visto alcuna reazione…
L’appello non è tecnico ed è per certi versi ingenuo nella sua proposizione, ma al tempo stesso non è meno intenso dell’occhiataccia ai tifosi di ieri sera: insomma, data la gravità dei fatti, che si fa? Intendiamo far finta di nulla? Dopo che negli ultimi anni i social media sono stati chiamati ad una maggior responsabilizzazione nei confronti dei contenuti veicolati, ora è venuto il momento di fare qualcosa per segnalare e limitare il razzismo. I social network non possono diventare casse di risonanza per il razzismo: così come YouTube sta lavorando per ostracizzare i teoremi complottisti della più bassa specie, così occorrerebbero reazioni mirate per far sì che gli account razzisti non possano trovare linfa con cui nutrire il passaparola.
Il contesto
Romelu Lukaku in una intervista di pochi mesi or sono si schierò già con pungente ironia sul tema del razzismo:
So sempre quando ho giocato bene, o male, in Nazionale, mi basta guardare la tv o leggere le pagine sportive il giorno dopo. Nel primo caso scrivono "Lukaku, attaccante belga", ma se non va tanto bene, preferiscono "Lukaku, attaccante di origine congolese”
(Romeliu Lukaku)
— Michele Dalai (@micheledalai) August 8, 2019
Oggi Lukaku gioca in una squadra che solo poco tempo fa vedeva lo stadio squalificato per la medesima accusa: razzismo. Da allora una continua campagna “Buu” invita ad evitare certi atteggiamenti, ma il problema degli stadi è ben più ampio e complesso, con soluzioni che sarebbero da ricercarsi più nella politica che non nella tecnologia.
Social network, che si fa?
Non si chiedono filtri a-priori, né limitazioni della libertà di espressione, ma almeno un taglio netto sulle espressioni più becere e infime di un fenomeno che nel terzo millennio non può forse ancora essere eradicato, ma che al tempo stesso non può più trovare casse di risonanza. Nessuno può più lavarsene le mani senza esserne co-responsabile.
I fenomeni sociali (come può essere il razzismo) dovrebbero trovare un limite insormontabile nella sanzione sociale: non bastano le leggi né i filtri, ma devono essere dinamiche interne a cultura e percezione della società a distribuire “penalizzazioni” per quanti si macchiano di comportamenti di questo tipo. I social media hanno però il dovere di migliorare l’esperienza al proprio interno agendo in qualche modo contro i fenomeni di più bassa caratura, quantomeno per dimostrare che la vera neutralità non è ignorare quanto accade, ma saper proattivamente difendere la libertà di qualcuno limitando gli abusi di qualcun altro.
L’occhiata di Romelu Lukaku arrivi ai tifosi che negli stadi continuano a portare simboli e atteggiamenti già ampiamente bocciati dalla storia; l’appello del giocatore giunga invece a quanti, responsabili delle piattaforme online più densamente popolate, hanno in mano pezzi importanti della società. I network, piazze virtuali di dibattito e di confronto, non possono più nascondersi: così come con la pedofilia o il terrorismo, con la pirateria o con gli estremismi, anche per il razzismo si operi per fare qualcosa di più. E per dimostrare che laddove si vuol essere “social”, occorre esserlo fino in fondo. Fino a dove l’ignoranza muore e l’intelligenza ritrova i suoi spazi.
Razzismo e social network: cosa si può già fare
Laddove l’azione proattiva delle piattaforme latita ancora, c’è comunque una community che, con successo o meno, potrebbe però agire per far sentire la propria voce. Come? Come strumenti già in essere, con i quali i social network hanno delegato la sanzione sociale alla comunità alla stregua dei meccanismi dell’ostracismo dell’era Classica.
Un post su Instagram si può ad esempio segnalare etichettandolo come “incitazione all’odio”. Spiega il social network che è pronto a rimuovere:
- “Foto che incitano all’odio o simboli come la svastisca o il segno con le mani del Potere bianco
- Post con didascalie che incoraggiano la violenza o gli attacchi basati sull’identità delle persone
- Minacce specifiche di violenza fisica, furto o vandalismo“
Sistema medesimo c’è su Facebook, ove è possibile etichettare un post per sottoporlo alla supervisione dei mai trasparenti e raramente efficienti organismi di controllo del social network:
Non basta dunque aspettare che operino i social network, così come i social network non possono lavarsene le mani aspettando che siano gli utenti a fare il lavoro sporco. Nessuno può più lavarsene le mani, perché essere comunità significa operare per il bene della comunità stessa. Vogliamo chiamarli “social network”? Allora si agisca di conseguenza. Tutti. Nessuno si senta escluso.