Ruggero fa lo steward per una compagnia aerea europea, seguendo i voli intercontinentali tra l’Italia e New York. Ruggero è molto contento di essere impiegato su queste tratte: ogni volta che torna in Europa mette in valigia un paio di computer comprati negli USA (fino a poco tempo fa anche iPhone sbloccati), e li rivende in Italia ad amici e conoscenti. Gli acquirenti risparmiano un bel po’ sui prezzi di listino, e il nostro steward “arrotonda” su uno stipendio di base non proprio entusiasmante.
Flavia è una aficionada di Apple da sempre. A casa sua ha una intera collezione di vecchi Mac da tavolo, un iPod consumato per il troppo uso e tre Macbook. Flavia è una dei tanti che che hanno passato l’intera notte, lo scorso 10 Luglio, come molti altri italiani, davanti ad un negozio di telefonia, per essere tra i primi ad acquistare l’ultimo gioiellino “Made in Cupertino”, il nuovo iPhone 3G. Sia a livello di prestazioni, che di design, dice lei, c’è niente da ridire: l’unica cosa che non capisce è perché in Italia il “nuovo nato” costi così tanto di più che negli Stati Uniti (o, che so, in Germania).
Piero è un appassionato di musica. Ormai da parecchio tempo fa la corte ad una elegante “docking station” della Tivoli, ricoperta di legno e fintamente retrò, con la quale ascoltare il suo iPod seduto in poltrona. Due giorni fa, Piero ha rotto gli indugi ed è andato finalmente sul sito italiano dell’azienda, trovandoci immagini rifinite, descrizioni impeccabili e il listino prezzi integrale. Salvo scoprire che il modello “iSong Book”, quello iPod-compatibile che vorrebbe comprare, costa la bellezza di 459 Euro. Quasi il doppio di quello che gli costerebbe se lo acquistasse negli USA.
Che cos’hanno in comune queste storie? Tutte raccontano di gadget tecnologici più o meno avanzati, di soldi che girano, di transazioni più o meno riuscite. Ma soprattutto, tutte testimoniano di una caratteristica evidente (ma non per questo meno inspiegabile) del mercato contemporaneo dell’elettronica consumer , quella per cui un medesimo prodotto – stesse specifiche, stesso design, stessa fabbrica di provenienza – continua a costare cifre molto diverse a seconda che ci si trovi a Roma, Dubai, Berlino o, (soprattutto) New York. Con buona pace del tasso di cambio favorevole e della liberalizzazione degli scambi.
Come è possibile tutto questo all’interno di un mercato, come quello della tecnologia di consumo, perfettamente globalizzato? Quali sono le voci di spesa, e quali le scelte deliberate, che stanno dietro a questa apparente incongruenza commerciale? O, detto in termini più spiccioli, come è possibile che lo stesso smartphone, acquistato per 300$ in un mall statunitense, possa costare 300 Euro (o molto più) in un centro commerciale di Agrate Brianza?
Proviamo a studiarci qualche dettaglio.
Cerchiamo anzitutto di capire se i differenziali di prezzo tra paesi (e continenti) esistano effettivamente , e quale sia la loro entità. A mò di esperimento, prendiamo i listini online, accessibili sui siti dei produttori, di tre prodotti scelti a caso: un computer Lenovo-IBM “Thinkpad R61” con allestimento standard; uno stereo Tivoli mod. “iSongBook”; un iPhone 3G da 8 Giga di Apple ed esaminiamo i loro prezzi rispettivi in Italia, Francia e Stati Uniti. Vediamo così che il laptop costa 862$ negli USA, 776,20 Euro in Francia, 840 Euro in Italia; che tradotto in termini percentuali significa +43% oltre le Alpi e +54% nel Belpaese. Per sua parte, la radio vale 399,99$ negli USA, 479 Euro (+92%) in Francia, 459 Euro (+82%) in Italia. Più difficile, ma comunque significativo, il raffronto rispetto all’iPhone 3G di Apple (venduto negli US solo in abbinamento ad un contratto): i consumatori che accettano di pagare un abbonamento mensile intorno ai 50 Euro, ottengono il gadget 8 Giga a 126 Euro negli Stati Uniti, a 149 in Francia, a 189/199 Euro in Italia.
Le differenze, quindi, esistono davvero, e sono ben percepibili soprattutto tra le due sponde dell’Atlantico. E questo ci riporta alla domanda di partenza: da dove vengono le fluttuazioni di prezzo, e perché la tecnologia costa cifre così diverse nei diversi paesi?
Al prezzo finale di un gadget hitech concorrono una serie di voci distinte, tra le quali si annoverano in particolare i “costi vivi” iniziali (produzione, R&D, marketing), i costi logistici (imballaggio, trasporto, assicurazione), i costi derivanti da scelte di politica commerciale di produttori e importatori, i “ricarichi” dei retailers, gli eventuali incentivi all’acquisto (bonus, sconti) da parte di autorità pubbliche o private, le imposte ed i dazi applicati nei paesi importatori. È il gioco tra questi fattori a determinare il prezzo finale del prodotto, ed è ad essi che è necessario guardare per comprendere i differenziali.
Partiamo, per una volta, dalla fine, ed esaminiamo il nodo dei dazi. Negli ultimi mesi si è discusso a lungo di questo tema, anche perché gli Stati Uniti e il Giappone hanno accusato esplicitamente l’Unione Europea di applicare dazi illegali perché in violazione degli accordi internazionali di liberalizzazione a suo tempo stipulati per il settore. Il Rappresentante statunitense per il Commercio Susan Schwab, in un intervento al Consumer Electronic Show dello scorso Gennaio, lo ha detto senza giri di parole: “Sproniamo l’Unione Europea a eliminare in modo permanente i nuovi dazi, ed a cessare le pratiche di manipolazione delle tariffe finalizzate a scoraggiare l’innovazione tecnologica”. L’Unione Europea, per sua parte, si è fieramente difesa, sostenendo l’infondatezza delle accuse e la propria piena fede nella liberalizzazione del comparto. Ma soprattutto, quel ch’è più rilevante per la nostra indagine, si è compreso che le imposizioni doganali incriminate si applicano solo ad un set ridotto e specifico di prodotti (monitor, stampanti multifunzione e set top box), non impattando sui prezzi finali di tutti gli altri gadget tecnologici. Per cui, per dirla con parole diverse, per la stragrande maggioranza dei beni tecnologici non sono i dazi i colpevoli dei differenziali di prezzo. Su questo ora la UE sta giocando, proprio in questi giorni, il ruolo di chi vuole cambiare le cose , allargare la quantità di prodotti coperti dagli accordi, aprire anche alla Cina e via dicendo, attivando una rinegoziazione che è difficile capire oggi dove porterà.
Ma, al di là dei dazi e degli screzi intercontinentali, qualche responsabilità in più sembrano recarla invece le imposizioni fiscali indirette (tipo IVA). Su questo piano, infatti, esistono forti differenze tra le due sponde dell’Oceano Atlantico: mentre nell’Europa continentale l’imposta a carico degli acquisti di natura tecnologica è del 20% (17,5% nel Regno Unito), l'”IVA” richiesta ai compratori americani per lo stesso tipo di prodotti non è mai superiore al 10%, ed in alcuni Stati è anche più bassa (ad esempio, 7% in New Jersey). Su ogni computer acquistato a Roma, quindi, pesa un livello di IVA più che doppio rispetto a quella presente, per lo stesso elaboratore, a Boston o Filadelfia.
Ma non c’è solo l’IVA. Accanto alle imposizioni fiscali, un’altra voce incidente sembra essere quella che concerne i costi logistici, e in particolar modo lo shipping . La quasi totalità dei componenti per i gadget hitech vengono prodotti in stabilimenti dell’Estremo Oriente, e da qui trasportati verso gli Stati Uniti e l’Europa in grandi navi porta-container, cariche di casse da 20 o 40 pollici. Solo che, complici la durata più protratta del viaggio e la presenza di accordi “bloccati” sui noli per l’Europa, i costi associati sono molto diversi a seconda che si stia spedendo negli USA o nell’Unione Europea. “Il prezzo da pagare per inviare un container a Gioia Tauro od a Rotterdam”, spiega uno spedizioniere della Maersk Italia, “si aggira su per giù intorno ai 2300$”. Per converso, secondo stime del Financial Times (novembre 2005) far viaggiare una cassa da Shangai agli Stati Uniti sulla rotta pacifica (verso i porti dell’Alaska o della California) costa mediamente 1600$. Quasi un terzo in meno.
Allo stesso tempo, comunque, è opportuno notare che le ricadute di questa differenza sul prezzo finale del singolo prodotto appaiono piuttosto limitate: “In ogni container da 20”, spiega infatti il nostro informatore “è possibile stivare qualcosa come 300 computer portatili, oppure 100 computer da tavolo, per cui la differenza di costo dei noli viene ripartita tra molti colli”.
A questo punto, considerando che i costi vivi di produzione dei gadget sono fissi e indipendenti dalla meta di destinazione, e che non sono disponibili dati certi sulle politiche di “ricarico” dei diversi retailer, restano da esaminare soltanto i dati relativi alle incentivazioni all’acquisto e quelli relativi alle politiche commerciali complessive dei produttori. Per quanto concerne gli incentivi, possono a seconda dei casi essere erogati dallo stesso produttore, dai suoi partner commerciali o dalle autorità pubbliche. Apple, ad esempio, pratica da sempre una politica di sconti sugli acquisti dei propri computer da parte di specifiche fasce di pubblico, come ad esempio gli studenti e gli insegnanti, con abbattimento di prezzo pari al 5% (Italia) o anche superiore (10% negli USA) sull’importo totale. E politiche di incentivazione consimili vengono talvolta messe in campo anche dai Governi nazionali, che offrono contributi e sgravi alla totalità o a parti specifiche della popolazione (ne sono esempi in Italia i progetti per i Co.Co.Co. dell’ultimo Governo Prodi ed i progetti “Pc ai giovani” e “Pc alle famiglie” del secondo Esecutivo Berlusconi). Appare tuttavia difficile ipotizzare che misure di questo tipo, presenti in molti paesi e generalmente limitate nella loro portata, possano avere ricadute significative in termini di differenziali di prezzo a livello internazionale.
Il discorso si fa più diverso, e più complesso, quando si passa agli aiuti erogati dai partner dei produttori (retailer, distributori, società di telefonia). A questo livello le iniziative possibili sono molte – dagli sconti, alle promozioni, a forme varie di sgravi fiscali – e molto diverse tra loro: in alcuni casi sono i venditori a scegliere autonomamente di sovvenzionare l’acquisto a fini promozionali, in altri invece sono i produttori a “obbligare” i loro partner all’erogazione degli incentivi. Nel caso del lancio dell’IPhone 3G in USA, ad esempio, AT&T ha ottenuto un contratto in esclusiva con Apple anche perché si è impegnata a sovvenzionare l’acquisto di ogni nuovo IPhone con un sussidio di 267$ (fonte: Piper Jaffrey), secondo un modello di business in cui il consumatore paga meno per il gadget, le vendite dei telefoni crescono (Apple contenta), il numero di abbonamenti stipulati cresce conseguentemente (AT&T contenta), entrambi i “brand” si rafforzano (Apple e AT&T entrambe contente).
Appare evidente che incentivi di questo tipo possano fare una bella differenza: nel caso appena documentato, ad esempio, il consumatore statunitense paga 200 $ un oggetto che diversamente gli sarebbe costato 469$, con un abbattimento di prezzo superiore al 100%. In realtà, però, la storia appena raccontata è preziosa anche perché introduce naturalmente all’ultimo (e più importante) passaggio della nostra indagine: quello riguardante le scelte di politica dei prezzi praticate da produttori e distributori.
Su questo tema, la rete internet è relativamente “avara” di informazioni affidabili, e la maggior parte dei soggetti interessati preferisce (comprensibilmente) mantenere un certo riserbo. Per questo, assumiamo come punto di partenza un Libro Bianco sull’accesso ai “mercati digitali”, presentato lo scorso 24 Giugno 2008 da eBay dinanzi al Parlamento Europeo. Nel documentare le difficoltà di accesso dei consumatori europei agli online markets , gli autori accusano esplicitamente i produttori di sfruttare le incongruità e differenze normative esistenti a livello comunitario per mantenere artificialmente alti i prezzi di beni e servizi. Al centro dell’argomento c’è l’accusa di continuare con la vecchia pratica di “segmentazione dei mercati”, quella incentrata sulla suddivisione in fasce diverse (spesso su base geografica) del mercato per ogni prodotto, e sulla susseguente fissazione di prezzi diversi per le diverse fasce. La pratica di “segmentazione del mercato” è molto vantaggiosa per i produttori – che mantengono un maggiore controllo sulla catena dell’offerta e impediscono la competizione tra le proprie stesse filiali nazionali, massimizzando i propri profitti – ma è dannosa per i consumatori e contraria alla filosofia del mercato unico europeo.
Il legame tra incertezza normativa e perpetuazione delle pratiche descritte è dato dal fatto che, a fronte della mancanza di interpretazioni certe per le leggi in materia di marchi e protezione dei consumatori, i produttori tradizionali riescono a tenere sotto minaccia di azione legale gli attori impegnati a “liberalizzare” i mercati di beni e servizi, e a mantenere sostanzialmente inalterato lo status quo . Secondo lo studio di eBay, se le “barriere all’ingresso” appena descritte fossero rimosse, nelle sole UK, Francia e Germania i consumatori potrebbero ottenere ogni anno un risparmio complessivo di circa 1,1 miliardi di sterline (pari a poco meno di 1,4 miliardi di Euro).
La persistenza di pratiche di segmentazione dei mercati trova riscontro anche nelle testimonianze di importatori e distributori. Dice ad esempio a Punto Informatico Roberto Guzzi, Amministratore Delegato di Dexxon Italia , una delle principali Trading Companies del nostro paese: “Le differenze di prezzo tra paese e paese esistono, eccome. E fra l’altro, se si considera che i costi di produzione e sviluppo sono indipendenti dal mercato di destinazione, e che le diversità fiscali giustificano tutt’al più un differenziale del 7-10%, risulta evidente che le differenze dipendono direttamente da scelte deliberate dei grandi player “. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Milena Gherardi, Responsabile marketing di Elettronica Sillaro : “La verità è che quando si parla di definizione dei prezzi, ogni paese fa storia a sé. E per l’Italia, forse, questo è ancora più vero che per gli altri: da noi anche le filiali delle multinazionali- presenti magari in tutto il mondo- agiscono come se si trovassero in un mercato unico e separato”.
Allo stesso tempo, spiegano gli addetti ai lavori, la “segmentazione” non è riconducibile in modo univoco alla “voracità deliberata” dei singoli produttori. Secondo Guzzi, ad esempio, molto dipende dal grado di concorrenza esistente nel contesto di riferimento: “A fronte di spinte concorrenziali sempre più forti, è il mercato a definire il prezzo per il prodotto che vuoi vendere. Nel definire i listini, cioè, non si guarda più solo (o tanto) ai costi affrontati in sede di produzione e trasporto, quanto piuttosto al posizionamento dei competitor , all’intensità della domanda interna per il bene, alla possibilità che nuovi entranti si inseriscano nel gioco. Ed è ovvio che, in una situazione di questo tipo, mantenere prezzi armonizzati ovunque diventa molto più difficile”. Gherardi, per sua parte, pone l’accento sulla diversità di attitudini rispetto agli acquisti online: “Mentre negli Stati Uniti- ma anche in diversi paesi europei- effettuare acquisti via internet è ormai la prassi, da noi la maggior parte dei consumatori continua a prediligere i canali di acquisto tradizionali. Canali che, se da una parte offrono più garanzie a livello di assistenza pre e post- vendita, dall’altra lasciano molto più spazio al gioco sui prezzi dei venditori”.
Arrivati a questo punto, il quadro appare già molto più chiaro. Risulta evidente infatti che i gadget hitech hanno costi diversi nei diversi paesi non per via dei dazi o dei costi di trasporto, e nemmeno per via delle imposte (che pure incidono per una piccola parte). Hanno costi diversi, invece, perché in campo tecnologico ogni paese continua ad essere considerato come un mercato separato, con regole differenti e gradi distinti di concorrenza. Con il risultato che nell’era del mercato globale possono continuare a persistere pratiche di “segmentazione dei prezzi” del tutto anacronistiche, buone per chi produce ma cattive- molto cattive- per i cittadini consumatori.
Giovanni Arata