Web (internet) – Si sapeva e l’ha confermato: David L. Smith, 32 anni, si è dichiarato colpevole di aver realizzato Melissa e di aver lasciato che il virus si diffondesse su internet. Un virus che si è propagato ad una forte velocità e che mesi fa, come si ricorderà, ha creato danni ingenti a moltissime aziende e corporation in tutto il mondo. Ora Smith rischia fino a 200mila dollari di multa e una pena carceraria fino a dieci anni. E sembra giusto e chiaro a tutti.
A me invece non sembra affatto chiaro né giusto, perché l’accusa di “procurata epidemia informatica” non esiste nei codici americani a detta proprio dei legali che hanno portato Smith in tribunale. Che sono infatti “costretti” ad accusarlo di “interferenza nella comunicazione elettronica”, un crimine dai confini torbidi soprattutto se si parla di un virus. Perché quel reato, dicono gli inascoltati difensori di Smith, si applica ad azioni di un individuo dirette a colpire un obiettivo preciso o ad ottenere un risultato determinato.
Ora, il povero Smith nel confessare la sua colpa (d’altra parte il patteggiamento è l’unica strada che gli conceda un qualche margine di speranza di cavarsela con pochi anni di galera), ha anche affermato, come già in precedenza: “non immaginavo che quel codice potesse provocare quel disastro. Non lo avrei mai liberato sulla rete se avessi saputo cosa avrebbe potuto fare”. Insomma ha creato un mostro che gli è esploso addosso ed è poi esploso addosso a tanti altri. Ma di certo le aziende turche o taiwanesi colpite da Melissa non erano un obiettivo determinato di Smith…
Va anche considerato che il caso di Smith è particolare perché non era mai accaduto prima che un piccolo virus, dannoso sì ma non distruttivo, si riproducesse e si rilanciasse sulla rete tante di quelle volte da bloccare migliaia di mail server e computer. Per la prima volta il potenziale di un’epidemia informatica veniva liberato e i mass media di tutto il mondo non parlavano d’altro, anche per i particolari piccanti attorno al caso, come il fatto che Melissa fosse il nome di una spogliarellista di cui Smith si era invaghito. Si aggiunga a questo il fatto che il meccanismo su cui Melissa era basato, tra l’altro non particolarmente originale, è stato poi ripreso da numerosi altri virus, alcuni ben più distruttivi, che da allora hanno iniziato a circolare sulla rete.
La sensazione è che Smith sarà condannato non tanto per aver creato Melissa, quanto invece perché di Melissa se ne è parlato troppo, perché Melissa ha avuto molti figli e perché, essendo il primo riconosciuto untore internazionale, il suo caso può rappresentare un ottimo deterrente per chi viene colto da insopprimibili desideri di realizzazione di worm e altri virus. Smith ci appare come la prima vittima di un sistema giudiziario che deve ancora trovare il modo di fasarsi con i tempi, di adeguare i propri mezzi e strumenti di valutazione all’era del digitale, all’età di internet. E anche un modo per non parlare della poca sicurezza delle soluzioni informatiche adottate dalla quasi totalità delle imprese o di quelle alla base dell’E-commerce, l’osso su cui oggi si avventano tutti.