Qualcuno lo prevedeva, qualcun altro lo sperava, di certo fa clamore: il caso giudiziario Capitol v. Thomas , il primo riguardante il file sharing che sia mai approdato davanti a una giuria, va rifatto da zero. Il giudice si è sbagliato perché errato è stato l’assunto per cui la semplice messa in condivisione di 24 brani bastasse a provare le accuse di infrazione di copyright sostenute dall’industria, ed errato è stato il verdetto che ha fatto cadere sulla testa di Jammie Thomas una tegola da 220mila dollari.
Michael Davis, giudice distrettuale del Minnesota che si occupa del caso, ha stabilito la necessità di un nuovo dibattimento in aula perché le istruzioni che lui stesso aveva fornito alla giuria, che ha stabilito la condanna della signora Thomas dopo una breve sessione di camera di consiglio, avevano “sostanzialmente pregiudicato” i diritti della donna.
Nella nuova decisione Davis stabilisce che “l’esame della Corte dell’uso del termine distribuzione in altre porzioni del Copyright Act, così come l’evoluzione della responsabilità per le offerte di vendita nell’analogo Patent Act, portano alla conclusione che il semplice significato del termine distribuzione non includa la messa in condivisione e, invece, richieda l’attuale diffusione”.
Dal dubbio il giudice Davis è dunque passato alla certezza, e il caposaldo di tutta l’infrastruttura legale del contrasto al P2P da parte delle major sembra sciogliersi come neve al sole . La tesi secondo cui basta avere dei file condivisi in un client di sharing per essere automaticamente tacciati di “pirateria” telematica era già stata presa di mira questo giugno, quando un gruppo di professori universitari, assieme alle organizzazioni Electronic Frontier Foundation, Public Knowledge e United States Internet Industry Association aveva dato una lettura identica a quella stabilita ora dal giudice.
Per tutta risposta l’industria aveva confermato la propria posizione , definendo praticamente “impossibile” il recupero di prove concrete “quando ci si confronta con le moderne forme di infrazione del copyright”. È una guerra sporca, quella per il controllo dei contenuti e la protezione a spada tratta del diritto d’autore, avevano suggerito le major, una guerra per cui non servono prove concrete dell’avvenuta infrazione ma basta che quei file siano a disposizione sul network per tramutare una ipotesi di reato in un crimine.
Oltre a confutare la tesi delle major riguardo la semplice condivisione come sufficiente materia per una condanna, Michael Davis si è fatto portatore di un appello diretto al Congresso degli Stati Uniti, perché riformi urgentemente il Copyright Act per evitare che si ripeta la sproporzione delle richieste pecuniarie rivolte a Jammie Thomas, che per soli 24 brani dovrebbe pagare 220mila dollari.
“Anche se la Corte non nega la rivendicazione dei Querelanti che, cumulativamente, il download illegale ha effetti di vasta portata sul loro business, i danni concessi in questo caso sono assolutamente sproporzionati rispetto al danno sofferto dai Querelanti” ha stabilito Davis. Per 24 canzoni, vale a dire l’equivalente ipotetico di 3 CD e un costo di 54 dollari, Jammie Thomas si è trovata davanti alla pretesa di restituire quella somma moltiplicata 4.000 volte rispetto al prezzo dei suddetti 3 CD.
“Sfortunatamente – continua il giudice – utilizzando Kazaa, Thomas si è comportata come un numero senza fine di altri utenti di Internet. I suoi presunti atti erano illegali, ma comuni. Il suo status come consumatrice che non era alla ricerca di un danno nei confronti di concorrenti, o di profitti, non scusa il suo comportamento. Ma rende la multa di centinaia di migliaia di dollari senza precedenti e oppressiva”.
Vista l’importanza del caso, le reazioni dalle parti a vario titolo coinvolte non si sono fatte certo attendere: EFF “applaude” la decisione di Davis, che ha avuto il coraggio di “rifiutare il tentativo di RIAA di riscrivere la legge sul copyright e quindi evitare il problema di provare in concreto che una infrazione ci sia stata”.
Jonathan Lamy, portavoce di RIAA, spiega invece che la nuova posizione del giudice “non era inattesa” considerando i dubbi che aveva pubblicamente ammesso dopo la prima sentenza. Nondimeno, “Al di là di questo problema limitato, una giuria di suoi pari ha unanimemente giudicato la signora Thomas colpevole di furto del copyright e per aver causato un danno significativo alla comunità musicale”, sostiene Lamy, dicendo che la sua organizzazione “confida nei fatti messi insieme contro l’imputata”.
RIAA continua a fare il muso cattivo , ma è indubbio che la posizione assunta dal giudice Davis potrebbe avere conseguenze pesanti sull’intera crociata legale contro gli utenti intrapresa dalle major in questi anni, tanto più che l’intervento del Congresso, dopo la sbornia di misure restrittive imposte sulla scia delle emozioni dell’11 settembre e cavalcata dai Repubblicani e dal presidente George Bush, potrebbe significare un notevole ridimensionamento delle pretese delle major di usare il sistema giudiziario statunitense come un maglio nei confronti dei condivisori.
Sia come sia chi non è particolarmente allettata dall’idea di ritornare in aula è la stessa Jammie Thomas : “Ora dovranno provare le loro accuse” ha detto la donna, che ribadisce come la sua condanna si basi sul niente perché le major “non dovevano provare nulla prima. Ora invece lo dovranno fare”. Brian Toder, avvocato della signora Thomas, definisce la decisione di Davis “brillante” e si dice convinto del fatto che se la difesa sarà costretta ad arrivare sino alla Corte Suprema per ottenere giustizia “avere il beneficio dell’opinione del Giudice Davis renderà il caso della mia cliente ancora più convincente”.
Alfonso Maruccia