Trapelano da palazzo Chigi le parole con cui Mario Draghi avrebbe argomentato la propria richiesta di sospensione del Cashback durante il secondo semestre dell’anno, sospendendolo temporaneamente in attesa di ulteriori decisioni. Se inizialmente questa sospensione poteva sembrare una decisione equilibrata per accontentare le parti politiche contrarie al progetto senza bocciare le parti che l’avevano proposta, ora sembra invece di più un modo per prendere tempo prima di arrivare ad una più sonora bocciatura a due fasi: prima sei mesi di silenzio, poi quella che sarà una cancellazione dovuta a necessità emergenziali che non sarà difficile trovare.
Le argomentazioni usate da Draghi, tuttavia, hanno più di una debolezza. Se quel che ci si aspettava era una valutazione di impatto (anche solo spannometrica) del cashback, quella che si è avuta è invece una lectio sull’equità del provvedimento. Ma ci resta più di un dubbio in proposito, sebbene noi stessi avessimo proposto cambiamenti al progetto fin dall’inizio per rettificarne l’utilità.
I motivi di Mario Draghi
Apprendiamo le argomentazioni di Mario Draghi dal Sole 24 Ore, che cita a sua volta una fonte anonima che avrebbe spiegato quanto illustrato da Draghi nel consesso del Consiglio dei Ministri di ieri:
Il cashback ha un carattere regressivo ed è destinato ad indirizzare le risorse verso le categorie e le aree del Paese in condizioni economiche migliori
Il Cashback favorisce i redditi medio-alti
“La maggiore concentrazione dei mezzi alternativi al contante si registra tra gli abitanti del Nord e, più in generale delle grandi città, con un capofamiglia di età inferiore a 65 anni, un reddito medio-alto e una condizione diversa da quella di operaio o disoccupato“: data tale concentrazione, la misura favorirebbe inevitabilmente le aree più benestanti del Paese e non contribuirebbe pertanto ad una redistribuzione della ricchezza.
Non ci era noto, tuttavia, che il cashback doveva porsi l’obiettivo di redistribuire: semmai avrebbe dovuto essere un sistema premiante per quanti fossero stati virtuosi nell’utilizzo di pagamenti digitali, spostando “ricchezza” verso questi ultimi per premiare la loro inclinazione all’uso di strumenti alternativi e tracciabili. Inoltre, ogni singola misura incentivante agli investimenti di fatto opera con la stessa logica, premiando chi investe il proprio maggior reddito ottenendone vantaggi in cambio. Argomentazione apparentemente strumentale, insomma, che appare debole di fronte alla vastità degli obiettivi che la misura si poneva.
Il Cashback non favorisce il cashless
“Non esiste alcuna obiettiva evidenza della maggiore propensione all’utilizzo dei pagamenti elettronici da parte degli aderenti al Programma. Quasi il 73% delle famiglie già spende tramite le carte più del plafond previsto dal provvedimento“. Giusta considerazione, che risponde alle osservazioni già fatte nei mesi antecedenti.
Aumentare il numero delle transazioni necessarie per ottenere il beneficio, portandolo da 50 a semestre fino a 200-300, significherebbe favorire quanti effettuano piccole spese continue, senza distinguo di reddito e premiando la regolarità nell’uso di carte, bancomat e app. Inoltre si creerebbero effetti virtuosi anche nella coercizione agli esercenti all’uso dei pagamenti digitali, spostando la clientela laddove può essere registrato un vantaggio collaterale nel pagamento. Insomma, argomentazione debole: un correttivo avrebbe introdotto effetti virtuosi innegabili da questo punto di vista.
Il Cashback non incentiva il cashless
“È improbabile che chi è privo di carte o attualmente le usa per un ammontare inferiore al plafond possa effettivamente raggiungerlo, perché la maggior parte di loro non può spendere quelle cifre. In media, le famiglie del quinto più povero dovrebbero infatti aumentare la loro spesa con carte di quasi il 40%, mentre quelle più abbienti solo dell’1 per cento“.
Se il tema è il cashback, una spesa di 1500 euro in 6 mesi per ottenerne 150 in cambio non è certo qualcosa di insormontabile, in nessun caso. Quanti non hanno raggiunto l’obiettivo del semestre delle 50 transazioni hanno iniziato tardi il programma e non ne sono state coinvolte a sufficienza: non hanno cambiato ancora le proprie abitudini, continuando a pagare in contanti e perdendo così il vantaggio promesso dal cashback. Proprio a questo doveva servire il meccanismo: premiare i virtuosi, punire i pigri.
Cancellarlo sarebbe stato lecito
Una decisione più netta sarebbe stata preferibile. Se Mario Draghi si fosse presentato al Consiglio dei Ministri spiegando – numeri alla mano – che il Cashback era una misura dannosa per il Paese, privo di risultanze, privo di significato, deviante per le dinamiche ludiche messe in campo, allora ci sarebbero stati tutti gli elementi utili per una sonora bocciatura. Gli argomenti possibili erano molti.
Gli argomenti adottati, invece, sembrano far passare un’idea differente, ossia una cancellazione voluta per non punire le zone d’Italia in cui gira più contante, per non penalizzare chi non intende passare ai pagamenti digitali, per non gravare su quanti (consumatori ed esercenti) non intendono cambiare le proprie abitudini. Questi argomenti hanno un sapore amaro, pur al netto delle mille debolezze che il regolamento aveva.
Si poteva aggiustare così come lo si poteva cancellare: con i giusti argomenti, entrambe le soluzioni erano lecite. Sospenderlo con argomentazioni fragili, invece, lascia la sensazione che più temevamo: ne stiamo uscendo senza averci capito nulla.