Marvell ha fatto ricorso per rivedere la sentenza che l’ha condannata a pagare la cifra record di 1,7 miliardi di dollari per violazione brevettuale .
L’azienda di Pittsburgh produttrice di chip era stata condannata alla fine del 2012 per violazione di due brevetti ottenuti tra il 2001 ed il 2002 dall’Università privata Carnegie Mellon : il numero 6,201,839 ed il 6,438,180 , entrambi relativi a tecnologie per ridurre i problemi nelle attività di processamento delle informazioni contenute negli hard drive.
Oltre alla questione più strettamente legata ai due brevetti, secondo Marvell da invalidare in quanto si limiterebbero a sfruttare una tecnica brevettata precedentemente da Seagate, l’azienda chiede ora ai giudici di rivedere la valutazione dell’infrazione: alla cifra record di 1,7 miliardi si è arrivati calcolando in oltre 2 miliardi i microchip venduti da Marvell in tutto il mondo ed in circa 50 centesimi per ogni chip il valore della tecnologia incorporata in essi in violazione dei due brevetti.
Tale calcolo – effettuato dai giudici in base alle testimonianze degli esperti di parte – secondo Marvell sarebbe assolutamente irragionevole e viziato da una serie di errori: innanzitutto perché le tecnologie rivendicate dall’università non coincidono perfettamente con quelle impiegate da Marvell. L’azienda non manca peraltro di notare che i due brevetti non sono mai stati prodotti, né licenziati dalla Carnegie Mellon; tale cifra non sarebbe poi ragionevole rispetto a tutti gli altri accordi di licenza finora firmati dalla Carnegie Mellon, né rispetto agli accordi di licenza per tecnologie simili; tali royalty infine sono dovute su tutte le vendite internazionali, quindi anche sui chip prodotti e venduti fuori dai confini degli Stati Uniti, limite della tutela offerta dai due brevetti e del potere del tribunale coinvolto.
Il caso appare assolutamente rilevante, tanto che diverse aziende si sono schierate a fianco di Marvell, tra cui Broadcom, Dell, Google, HP e Microsoft, mentre hanno preso le parti di Carnagie Mellon altre sei università.
Non si tratta, d’altra parte, dell’unica battaglia brevettuale che vede contrapposte aziende software e università – telematiche o tradizionali che siano: lo stesso fronte si è da ultimo ricreato rispetto all’Innovation Act, la proposta di riforma brevettuale , fortemente voluta dalle aziende di settore per contrastare il fenomeno dei patent troll, le entità non produttive che sfruttano i brevetti per ottenere licenze e royalty.
Il problema è nelle definizioni: così com’è, infatti, questa legge rischia di coinvolgere anche le università, che in effetti non producono nulla, ma che si differenziano dai patent troll in quanto fanno ricerca. Per questo gli accademici vorrebbero una riformulazione per non rischiare di vedere danneggiate le università, le startup ed i centri di ricerca.
Claudio Tamburrino