Sono trascorsi quasi tre anni dall’ incursione nell’abitazione di Kim Dotcom ordinata dagli Stati Uniti e condotta dalle autorità neozelandesi: l’impero di Megaupload si è sgretolato sotto il peso di un’accusa di violazione del copyright e il suo fondatore non ha mai rinunciato a combattere, in Rete e nei tribunali. Ma, in attesa di decidere della sua estradizione, la giustizia sembra essergli avversa.
La Corte Suprema di Wellington ha appena confermato la legalità del raid che ha portato al sequestro di 135 dispositivi, tra macchine e supporti di archiviazione, dall’abitazione di Dotcom e del tecnico informatico Bram van der Kolk. Dotcom aveva già contestato l’operazione, a suo dire fondata su mandati troppo generici: se in prima istanza le autorità neozelandesi avevano dato ragione al fondatore di Megaupload, ritenendo che il mandato non fosse supportato da accuse circostanziate, la corte d’appello che aveva riesaminato il caso aveva ribaltato la decisione, ammettendo a favore di Dotcom solo la presenza di trascurabili vizi formali.
La Corte Suprema si è trovata d’accordo con il tribunale d’appello e ha respinto la richiesta di Dotcom: “nonostante i mandati di perquisizione fossero manchevoli nella descrizione delle accuse da cui erano motivati – così recita la decisione del tribunale – queste mancanze non sono risultate in alcuna errata amministrazione della giustizia nei confronti del ricorrente”.
A favore di Dotcom resta però l’orientamento riguardo ai dati oggetto del sequestro, che non avrebbero dovuto essere stati copiati e consegnati alle autorità statunitensi: gli verranno restituiti , in cambio delle password per farvi accesso.
Gaia Bottà