Un patto di ferro per spremere fino in fondo un mercato che appare ormai riarso, una mossa potrebbe avere il solo risultato di perpetuare un passato polveroso, un modello di diffusione della musica vecchio di decenni. È quello su cui meditano RIAA, rappresentante dell’industria della musica statunitense, e la NAB, l’associazione statunitense dei broadcaster. Un accordo che si vorrebbe suggellare con l’intervento delle autorità statunitensi, che dovrebbero obbligare tutti i produttori di elettronica di consumo a dotare gli apparecchi di un ricevitore FM.
La posta in gioco, capace di muovere un tale dispiegamento di forze e di creare questo complesso spostamento di pedine, sono i diritti connessi degli artisti le cui interpretazioni vengono passate in radio. La legge statunitense, a differenza di quanto avviene in Italia, prevede che le emittenti radio tradizionali non corrispondano alcunché per i diritti connessi relativi ai brani che vengono trasmessi: solo l’autore viene ricompensato, mentre ai titolari dei diritti connessi basti il fatto che la radio farà da trampolino promozionale affinché possano trarre guadagno da altri canali. Ma allo studio c’è da mesi una proposta di legge, il Performance Rights Act , con cui si vorrebbero cambiare le carte in tavola, e spingere le emittenti radio a corrispondere delle royalty anche agli interpreti .
RIAA supporta la proposta: le emittenti radiofoniche non possono continuare a popolare i loro palinsesti infarciti di pubblicità a spese di chi la musica la suona, ricompensando il solo autore dell’opera. I broadcaster di NAB si sono sempre schierati contro la proposta : strangolerebbe le piccole emittenti, il cui ruolo promozionale è indubbio in quanto, oltre a trasmettere musica, informano i cittadini rispetto ad eventi che riguardano il mondo della musica, fanno loro conoscere gli artisti, offrono una buona vetrina ai prodotti delle etichette. A parere di NAB la proposta di legge sarebbe chiaro segno dell’arrancare di un’industria che “ha fallito nel tentativo di adattare i propri modelli di business all’era del digitale”.
Ma gli attriti sembrano essersi sciolti in un recente dibattito : le emittenti radio potrebbero essere disposte a scendere a compromessi con gli agguerriti titolari dei diritti connessi, a corrispondere loro dei compensi secondo uno schema di prezzi agevolato che varrebbe all’incirca ad un totale di 100 milioni di dollari all’anno. A patto però che il Congresso coinvolga nella proposta di legge una terza parte, l’industria dell’elettronica di consumo. Che potrebbe essere chiamata a montare in ogni dispositivo mobile , in ogni telefonino prodotto, un ricevitore radio .
L’industria della musica e le emittenti potrebbero convergere sull’obiettivo del rilancio della radio: i broadcaster potrebbero corrispondere le royalty ai titolari dei diritti connessi a patto che le proprie platee vengano forzosamente ampliate, così da vendere agli inserzionisti un numero più cospicuo di apparati uditivi. Una strategia che aggrada l’industria della musica: pur avendo sempre sostenuto che la vis promozionale della radio non fosse sufficiente a ricompensare coloro che si adoperano per la musica registrata, qualche potenziale orecchio in più potrebbe non stonare in un mondo in cui i canali di distribuzione tradizionali non sembrano sempre godere di buona fortuna.
Si tratta solo di una proposta, non sono terminate le negoziazioni private tra i due attori in causa e le autorità non sono ancora state ufficialmente informate delle istanze pacifere che fermentano fra i due litiganti. Tantomeno è stato ufficialmente informato il terzo attore, l’industria dell’elettronica di consumo. Nello stesso alone di ufficiosità la Consumer Electronics Association ha però reagito con decisione, dichiarandosi contraria ad ogni potenziale coinvolgimento, utile solamente a cementare un patto tra portatori di interessi che non sanno sbrogliare autonomamente i propri contrasti.
“È l’apotesosi dell’assurdo” ha denunciato il presidente di CEA Gary Shapiro. I produttori di elettronica di consumo si troverebbero a dover ripensare la propria linea di produzione , a sacrificare spazio, leggerezza e contenimento dei consumi solo per includere una funzionalità che i consumatori non sembrano ritenere fondamentale. Il tutto per venire incontro agli interessi dell’industria della musica, che cerca compromessi coinvolgendo terze parti che hanno imboccato altre strade, e per di più senza averle consultate. “NAB e RIAA – attacca Shapiro – si muovono come carrozzoni che si rifiutano di innovare e cercano di mettere i bastoni fra le ruote a coloro che guardano al futuro”.
Il Performance Rights Act tornerà ad essere discusso nei Palazzi nel corso dei prossimi mesi.
Gaia Bottà